C’è chi ritiene sia un tonico per l’organismo e anche per lo spirito. Perciò intero, sbriciolato, in polvere, fresco, cotto, in salsa, lo aggiunge a ogni piatto. Questa sorta di doping gastronomico trova sempre più fautori. I benefici del peperoncino sono infatti suffragati da ricerche apparse su autorevoli riviste scientifiche e talmente consolidati da rendere indiscusse le sue virtù terapeutiche. Il ruolo del peperoncino nella cucina mediterranea, poi, è talmente importante da avergli fatto meritare in Italia un’accademia dedicata e un centro studi, il Capsor. E si chiama capsaicina la sostanza contenuta nel Capsicum annuum (la varietà presente da noi) cui si attribuiscono numerose proprietà salutari.
L’elenco di quelle riportate dagli esperti è così lungo che si rischia di dimenticarne qualcuna. Tanto per cominciare è provato che fa bene alla circolazione: ha proprietà di vasodilatazione. Non solo, un uso costante di peperoncino, miniera fra l’altro di vitamine C, A ed E, farebbe abbassare il livello del colesterolo, aiuterebbe a tenere a bada la pressione e sarebbe anche un antidolorifico naturale: i recettori della bocca ordinerebbero al cervello di rilasciare endorfine, gli ormoni che attenuano la sensazione di dolore.
Purtroppo non tutti riescono a tollerare il bruciore alla bocca del peperoncino e quindi non possono beneficiare delle sue virtù. Secondo Gary Paul Nabhan, direttore del Center for sustainable environments dell’Università dell’Arizona, autore del saggio A qualcuno piace piccante (Codice edizioni, da poco pubblicato), il fatto che piaccia o meno non è solo questione di gusto. «Esiste una stretta relazione tra le preferenze culinarie, le caratteristiche genetiche e la cultura dei nostri antenati. Si è scoperto che ci sono popoli geneticamente predisposti all’insensibilità al peperoncino e altri invece ipersensibili» scrive.
Alle origini di certe dissonanze culinarie, come indicano recenti scoperte sulla genetica dei gusti, ci sarebbe anche una spiegazione in termini evolutivi. Gli esseri umani, come altri mammiferi, nonostante l’avversione innata verso «il calore» della capsaicina, hanno continuato a mangiare il peperoncino, «ignorando i segnali geneticamente programmati che dicevano di evitare tali irritanti infiammatori orali».
Ogni singola cucina riflette la storia evolutiva di un popolo nel far fronte a disponibilità di piante e animali commestibili, alle malattie più frequenti, alle epidemie. Il peperoncino sarebbe un caso esemplare. Paul Rozin, studioso delle radici biologiche e culturali delle scelte alimentari, ritiene che gli esseri umani abbiano usato il peperoncino come vermifugo e medicinale per uso topico prima di ingerirlo.
«Con la certezza che potevamo avvelenarci, cominciammo a sbriciolare piccoli peperoncini selvatici per “salare” i nostri cibi. In seguito abbiamo addomesticato i peperoncini più grandi, quelli che usiamo oggi, non solo come condimento, ma anche come vegetale in sé» scrive Nabhan. Secondo Rozin, in quasi tutte le culture almeno una sostanza sgradevole da un punto di vista innato diventa un cibo importante.
Le spezie, racconta Carlo M. Cipolla, nel suo Allegro, ma non troppo, hanno sempre avuto un ruolo nelle vicende umane. Anche il pepe nello sviluppo economico del Medioevo. Di certo i peperoncini sono oggi la spezia più usata nel mondo. Quale dei molti benefici fu quello che fece superare l’iniziale avversione innata? Svariate le ipotesi su come abbiano avuto la meglio sulla nostra predisposizione genetica ad avvertire il bruciore che provocano e a evitarli.
«Tanto per cominciare offrono novità in diete blande e monotone. Contengono sostanze chimiche che ritardano il deterioramento dei cibi, o almeno mascherano l’odore e il gusto del cibo deteriorato. Inoltre fanno sudare gli abitanti dei climi torridi rinfrescandoli, una sorta di aria condizionata dei poveri contenuta in un baccello rosso fiammante. Infine, forniscono micronutrienti essenziali e antiossidanti protettivi» scrive Nabhan.
Che la scelta di aggiungere peperoncino alle ricette sia legata al benessere di chi lo mangia è oggetto di ricerche. Paul Sherman e Jennifer Billing, biologi alla Cornell University, sostengono che l’ipotesi antimicrobica funziona per altre spezie usate per condire la carne: ucciderebbero batteri e funghi. È vero in particolare nei climi tropicali dove la carne si deteriora rapidamente se cotta senza spezie. Il peperoncino, scrive Nabhan, contiene quattro antiossidanti capaci di respingere microbi anche dopo che il piatto è preparato: acido ascorbico, capsaicinoidi, flavonoidi, tocoferoli.
Nuove ricerche attribuiscono al peperoncino la capacità di sradicare l’Helicobacter pylori, all’origine di ulcere e gastriti. Sherman e Billing hanno analizzato le ricette delle cucine etniche delle zone nord e sud boreali fino all’Equatore per verificare la percentuale dei piatti di carne con spezie: l’intensità dell’uso di peperoncino era più alta nei climi caldi. Nei paesi nordici raramente il cibo è molto speziato. Come mai?
«Se il peperoncino riduce la frequenza delle morti dovute a malattie portate dalla carne, evolutivamente parlando i baccelli valevano oro quando i frigoriferi non erano disponibili» risponde l’autore. Ma ciò che emerge è che un gene per il gusto e altri geni per la percezione del dolore interagiscono con l’ambiente, la cultura e il comportamento per «dar forma al livello in cui ciascuno di noi prova dolore e piacere nel mangiare peperoncino».
Secondo Sherman, che ha coniato l’espressione «gastronomia darwiniana», processi relativamente «non darwiniani» possono essere coinvolti nella coevoluzione di peperoncini, microbi e culture umane. In India il peperoncino arrivò dopo il 1492, e forse l’aggiunta di una nuova spezia quale deterrente per i microbi in una cucina a base di carne avrebbe avuto un immediato valore adattativo sui suoi consumatori, in quanto i microbi potevano aver già sviluppato resistenza alle sostanze chimiche delle spezie che da più tempo facevano parte di quella cucina. «E poiché la distribuzione di batteri, peperoncini ed etnie continua a cambiare, è probabile che non rimangano statiche né la frequenza dell’uso del peperoncino nelle ricette tradizionali né la frequenza degli insensibili in una certa etnia» conclude Nabhan.
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