Leo Gullotta in “Prima del silenzio”

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Leo Gullotta in “Prima del silenzio”

Gullotta _Le Pera 3Beniamino del pubblico nazionale, Leo Gullotta – catanese doc – torna ancora una volta sul palcoscenico del “suo” Teatro Stabile, E lo fa con uno spettacolo ospite di rilevante interesse. Nell’anno del decennale della morte di Giuseppe Patroni Griffi (dicembre 2015), il Teatro di Roma accoglie la produzione di uno dei suoi testi più noti, Prima del silenzio, interpretato proprio da Leo Gullotta, nel ruolo di un vecchio poeta solitario, e diretto da Fabio Grossi. Un omaggio del Teatro di Roma all’uomo e all’artista che ha attraversato sessant’anni di cultura italiana, affinché possa proseguire la vita e il percorso di uno dei testi più rappresentativi di Patroni Griffi, in questa messa in scena che è stata molto amata dal pubblico e dalla critica nella passata stagione teatrale. Proprio a seguito delle vicende che hanno portato alla chiusura di una sala storica come quella di Via Nazionale, il Teatro di Roma ha ritenuto doveroso acquisire questa produzione di punta che, con il marchio del Teatro Eliseo, è stata ospite in alcuni dei maggiori teatri italiani Prima del silenzio passa così sotto l’egida del Teatro di Roma in collaborazione con Teatro Eliseo e Fuxia contesti d’immagine.
A interpretare questa opera scritta nel 1979 per Romolo Valli, è il talento poliedrico di Leo Gullotta che porta in scena il valore della “parola”, strumento di sopravvivenza e libertà, attraverso la forza profetica e vivificante del testo. Nel ruolo del protagonista, l’attore racconta la storia di un vecchio poeta disilluso e malinconico, amareggiato nei confronti di una società che non riesce più a comprendere. Deciso a lasciarsi tutto alle spalle, famiglia, poesia e vita stessa, l’unico legame che sembra essergli rimasto è un giovane (Eugenio Franceschini) affascinante, dinamico e spensierato, con cui intraprende una relazione ambigua fatta di attrazione fisica e intellettuale e, al contempo, di differenze e incomprensioni.

Uno scontro generazionale fra un uomo maturo e un giovane, attratti da forze ambigue come amicizia, sesso, amore, dove la necessità diventa quella di testimoniare il valore della parola e il suo fallimento, per rappresentare il binomio tra il mondo degli adulti, che sconta gli errori del passato, e quello dei giovani, che rimane intrappolato nelle paure del futuro. Se il ragazzo considera le parole un limite alla realtà, un ostacolo all’azione e a quell’intraprendenza selvaggia che contiene a fatica, il poeta scorge nell’uso della parola l’unico vero modo per sentirsi ancora vivo, ritenendo necessario dire tutto il possibile prima del silenzio, ovvero prima che cada la quiete della morte. Spinto da questa lotta impossibile tra l’incapacità a usare le parole e il rifiuto a voler creare un linguaggio comune, il poeta esorcizza il confronto-scontro con il ragazzo attraverso l’apparizione recriminante dei fantasmi della sua vita passata: la famiglia, affrontata attraverso il personaggio della moglie (Paola Gassman) come un’entità vorace e ricattatoria; la casta, rappresentata dal personaggio del figlio (Andrea Giuliano) con i suoi orpelli e contributi piccolo borghesi; il dovere, materializzatosi attraverso il personaggio del maggiordomo (Sergio Mascherpa), figura di una oppressione che fa leva sul senso di colpa. Tre fantasmi che ritornano in vita come incubi e fanno da contraltare al rapporto che il poeta ha costruito con il giovane ragazzo, mettendo in discussione le proprie convinzioni, passioni e speranze che lasciano spazio, infine, solo alla forza della parola.

«Scritto negli anni ‘70, il testo risulta ancor vivo per tematiche e concetto – annota il regista Fabio Grossi – La storia racconta le scelte, pur’anche rivoluzionare per la casta che lo ha inglobato per tutta la sua vita precedente, di un uomo, del quale non ci viene fornito il nome. Probabilmente questo poco importa alla risoluzione della vicenda, a mio discernimento l’autore, ad arte e tramite l’espediente, ha voluto rendere universale la faccenda. Quello che leggo, con gli occhi di un uomo che vive il XXI secolo, era questa di grande modernità, dove la comunicazione, attraverso apparati di nuova costruzione, è molto più facile ed immediata, fa sì che intraveda e consideri, attraverso il protagonista, un disagio sociale legato soprattutto alla comunicazione della parola scritta, della Poesia. Fantastica la scena finale dell’opera, dove il nostro LUI, circondato da pagine di libri, afferra “la parola” che gli svolazza attorno, in una ideale caduta libera, declamandone la realtà, in essa contenuta. Ma per arrivare a questa, il travaglio assume le fattezze di un incubo, con l’apparizione dei fantasmi della sua vita: LA MOGLIE, IL FIGLIO, IL CAMERIERE. L’unica vicenda che realizza e tranquillizza il protagonista è quella che vive, nel suo contemporaneo, con IL RAGAZZO. Questa, pur’anche vampireggiante, è linfa pura e vivificante durante l’incubo che egli vive. Ma anch’essa terminerà, come conclude la vita di un uomo, il quale abbandonato dai suoi stimoli si richiude nella sfera della parola, come ultima spiaggia di un inevitabile tramonto che chiuderà un percorso permeato dalla Poesia con la Poesia stessa. Lo spettacolo si svolge attraverso la presenza in scena del protagonista e del suo co-protagonista, mentre gli autori del percorso sensoriale del Nostro LUI, assumono essenza digitale: appartenendo la Nostra rappresentazione ad un’era atta al virtuale, anche l’incubo assume la forma d’un etere affollato di ricordi, passioni, depressioni e angosce. Tutti vestono l’essenzialità del ruolo: un Uomo, durante la considerazione della sua vita, abbandona orpelli, inventati per giustificare realtà distorte. Un racconto tecnologico per una sensazione assoluta. Ma la Parola avrà sempre e comunque la sua centralità vivificante».

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