CATANIA – Al Centro Zo, nell’ambito della rassegna del Teatro Mobile, è andato in scena “Sadismo di coppia” di Francesco Maria Attardi con Francesca Agate ,Plinio Milazzo e Francesco Bernava; aiuto regia di Tony Bellone, musiche di Massimiliano Pace e scenografie curate da Arsinoe Delacroix.
Francesca e Giuseppe, dopo undici anni di convivenza, decidono di sposarsi e di traslocare in una casa nuova e moderna. Non c’è nulla in ordine perché tutto attende negli scatoloni di essere messo al proprio posto. Pensano che la luce non funzioni, ma non sanno che la casa è domotica, attrezzata di sistemi che reagiscono al rumore del battito di mani. Hanno traslocato dalla convivenza al matrimonio così come hanno traslocato da una casa più piccola ad una maggiormente attrezzata; eppure, pur dovendosi conoscere bene, si sentono disarmati di fronte a tanti cambiamenti il cui tenore pone i protagonisti in una condizione psicologica quasi schizzofrenica! “Giuseppe, perché mi hai sposato? Giuseppe, dimmi perché mi hai sposato?”.
Cosa spinge una coppia a formalizzare un rapporto? Ad avere bisogno di un certificato? La paura dell’occhio sociale, la paura che l’altro non si senta vincolato e vada via facilmente, senza sentire il peso della sala d’attesa di uno studio legale necessario a sciogliere un vincolo, dove indugiare può significare ripensarci? , Francesca e Giuseppe sono i figli di una società dall’obsolescenza programmata: tutto ha una data di scadenza, tutto va sostituito e non aggiustato. “Mio padre e mia madre sono insieme da trent’anni…che male c’è a sognare?” Francesca e Giuseppe non sono una coppia di fidanzati che si appresta ad iniziare un percorso, bensì sono una coppia in crisi, giunta alla decisione verso il grande passo senza quasi confrontarsi sulle incertezze scomode della loro quotidianità, stando quasi di spalle per paura di guardarsi in faccia. Loro ce la mettono tutta per stare insieme: prima convivendo, lei sospettando i tradimenti di lui, brava a fare finta di niente, forse vigliacca. Lo chiederà dopo, quando avrà il famoso certificato delle certezze e lo farà guardando suo marito in faccia, sfidandolo perché Francesca, consapevole della pregressa frattura, vuole afferrare l’occasione della crisi come opportunità per concedersi una scelta, per compiere una scelta. Ma ci sono quegli scatoli, abbandonati sul pavimento in attesa di essere svuotati i cui oggetti vengono scartati lentamente, spolverati con stanchezza…e la luce intanto si accende e si spegne ogni qualvolta i toni e i gesti diventano più accesi, più convulsi. “Giuseppe! Dimmi..tutto perdonato, ma dimmi: quante? Con chi? Per quanto tempo? Come si chiamano?”. “Francesca, perché lo vuoi sapere? A chè serve? Però anche tu devi essere sincera!…io, tredici e mezzo, per una notte, cose fugaci, esperienze di sesso, palestra per smaltire un pranzo di troppo di un congresso di troppo…e tu?”…”Io, uno, per nove mesi”….
L’elaborazione di quella confessione insulta la dignità di Francesca, ma Giuseppe realizza che nove mesi con la stessa persona, non sono “palestra”, ma “alternativa”, in cui si cerca una carezza guardando le mani, si gode di un nuovo modo di essere guardato. “Nove mesi??? “ – griderà sbigottito – “In nove mesi può nascere un bambino!!!”.
La scappatella diventa relazione, non importa perché: turba, annienta le certezze di fare e tanto poi di poter tornare come se il tradimento fosse un reato minore alla persona, ingigantito soltanto dai pregiudizi. Ma il dubbio che la moglie possa aver provato anche solo dell’affetto non è più polvere che si spazza da un indumento dopo essere tornati a casa, bensì un macigno che ti porti appresso. “Chi è? Dimmi come si chiama? Dopo, tutto perdonato…”. Congetture, domande incalzanti, ancora tentativi, buchi nell’acqua, il ragionamento si sgretola, non si arriva a nessun nome…fin tanto che forse quello più banale non si presenta, messo lì da sempre…l’amico (“Non si può, non si può, non si può scivolarci tra le braccia e guardarci ancora in faccia”, cantavano i Pooh)…l’amico di lui (eccellente interpretazione del messinese Francesco Bernava) molto più legato a lei, invecchiato da qualche tempo, lo sguardo spento, l’aspetto emaciato ed appesantito come da un altro macigno…”Piero come ti definiresti?…io?…Una merda!”… Ma Francesca quella storia l’ha spezzata e non perché in essa si fosse esaurito il desiderio ed il piacere di stare insieme ma esattamente per le ragioni opposte, perché rischiava di diventare importante.
Un tempo ci si sposava con il ferreo convincimento che sarebbe stato per sempre e quasi nessuno al di fuori si accorgeva di quanto un matrimonio fosse realmente felice o realmente triste, perché bisognava provarci, perché era per sempre. Che ci fosse intesa non era determinante. Un contratto sottoscritto con l’onore. E le unioni restavano in piedi, magari sulle stampelle ma in piedi. Si tradiva, si litigava, si facevano figli per rimediare ad un allontanamento; si decideva di spazzare via tutto e si restava. Qualcuno ne era lieto, qualcuno si faceva male ma si continuava ad inghiottire e restare insieme… Giulietta Masina sopportò pazientemente tutti gli scivoloni amorosi del marito Federico Fellini: gli rimase accanto continuando ad ammirarlo e ad amarlo tanto da lasciarsi morire dopo pochi mesi la sua scomparsa…
Oggi, il divorzio per fortuna ha affrancato molti coniugi dal dovere di doversi sopportare, ma non dovrebbe essere considerato come la soluzione di tutti i mali nascenti dalle incomprensioni, bensì come una possibilità. Francesco Maria Attardi e Francesca Ferro indugiano sull’importanza del dialogo, anche se diventa sadismo, anche se le domande sono al vetriolo e le risposte scavano un solco! Senza dialogo, le incomprensioni tracimano sulla propria irrisolvibilità e, benché basta solo battere le mani, la casa resterà al buio.
La scelta di sposarsi dopo anni di convivenza non è più oggetto di sfide e rilanci verbali, bensì viene vista come una decisione soggettiva autonoma in cui l’autore (per dirla alla Giovanni Verga) non ha potere d’intromissione; Francesca e Giuseppe si sposano per le loro ragioni e dopo provano a restare insieme perché si amano. Lo dice Francesca a suo marito: “non ti dirò chi è perché sarà questa la mia forza per impedirti di continuare a tradirmi, questo dubbio, questa domanda sospesa. Come Filumena Marturano non rivelerà mai a Tumì chi dei figli “è figlio a lui”, lei non chiarirà il sospetto di Giuseppe che sia Piero, l’Amico, l’Altro….Intuizione diabolica fatta da una moglie che ha smesso gli abiti domestici e si è presentata ancora splendida al marito e all’amico in una mise curatissima; un nuovo abito, una rinascita.
“Chi non ha mai tradito? Chi non è mai stato tradito?” Gli spettatori vengono coinvolti in un gioco della verità anonimo, invitati a compilare un divertente questionario che Francesca Agate, Francesco Bernava e Plinio Milazzo leggono a fine spettacolo…e se ne leggono delle belle…
Bravi Francesca Ferro e Francesco Maria Attardi: bravi perché dopo “Sogno di una notte a Bicocca” hanno confermato e mantenuto la promessa di portare a teatro la gente per dare alla gente delle risposte alle domande che la gente si fa! Perché il teatro ciascuno di noi lo vive per le sue ragioni: ma fosse anche per appisolarsi sulla poltrona, dimostriamo di averne bisogno. Ma quando il teatro non è solo lacrima, risata, moda, esperimento ed è quello che andiamo a trovare nella rassegna del Teatro Mobile, allora esso non è una figura mitologica bensì un coinvolgimento. Non pretende di comunicare a tutti lo stesso messaggio: lo spettatore del Teatro Mobile è come un bambino che viene invitato ad una festa: non importa se il bambino si divertirà o si annoierà; sicuramente avrà il suo pezzo di torta. Ecco, è con questo conforto che si lascia il teatro: aver avuto qualcosa, aver ricevuto un dono.
I tre attori sulla scena sono brillanti e coinvolgenti come la storia che recitano: Francesca Agate la conosciamo come deliziosa ed imprescindibile presenza femminile del Gatto Blu. Insieme a Gino Astorina, Luciano Messina, Nuccio Murabito, Pippo Marziale ci trascina da anni nei siparietti più divertenti. Ammirarla in un ruolo, un po’ drammatico è uno stupore, ma la sua bravura è evidente. L’espressione muta con cui guarderà e accarezzerà il volto del marito nell’ultima scena è una dichiarazione d’amore e di volontà di farcela insieme anche se con amarezza.
Plinio Milazzo lavorava a Telejonica come giornalista e Gino Astorina – che a quel tempo era il direttore artistico – gli consigliò di lasciare quel mestiere e dedicarsi alla recitazione. Consiglio che fu subito accettato. Ho chiesto a Gino cosa ne ha pensato di questa performance tragicomica: << Purtroppo, non ho visto i miei “cuccioli” in questa pièce teatrale poiché impegnato a fare gli onori di casa al Gatto Blu, dal momento che in questi giorni ospitiamo Roberto Lipari. Non mi viene difficile immaginare la bravura della coppia (nella vita e sulla scena) e forse sarò di parte ma ritengo che la loro bravura dipenda dalla freschezza della loro recitazione priva di orpelli ed artefatte tonalità accademiche. La gioia con la quale affrontano qualsiasi fatica teatrale rende normali i personaggi che altresì risulterebbero stucchevoli se trattati col finto professionismo che circonda questo mondo! In una sola parola: bravi!
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