di Claudia Lo Presti
Claudio Meldolesi (accademico, drammaturgo, storico e critico teatrale, ha promosso nelle carceri l’attività teatrale) definiva il Teatro “un’arte sociale, che a differenza della pittura e della scrittura, senza pubblico non può esistere: un quadro o una poesia esistono indipendentemente da chi li guarda o legge”… Il Teatro per essere ha bisogno di tre indispensabili contesti comunitari: la comunità di chi propone ed organizza; la comunità di chi assiste; la comunità di chi accoglie nel proprio contesto la rappresentazione: nel teatro di Walter Manfrè, le tre comunità si azzerano mescolandosi.
Di Manfrè – il regista per il quale nel 1993, il critico Ugo Ronfani, coniò la definizione di “Teatro della persona” – avevo sentito parlare anni fà: una mia amica scrisse una “confessione”; un’altra mia amica, recitò una “confessione”… e adesso mi trovo a rivestire il ruolo dello spettatore/comparsa…Io che non sono attrice ma appassionata spettatrice da sempre, mi trovo seduta con altri spettatori/attori (ventisette in tutto) ad una grande tavola che mi pare subito troppo larga, come se volesse avere la pretesa di somigliare a qualcos’altro.
Non ho un copione: mi hanno detto “si accomodi”… ho un coperto davanti a me e del vino versato come ciascuno di noi; possiamo solo bere ma non interagire. Un maggiordomo mi ha introdotta indicandomi una sedia… almeno mi pare un maggiordomo…la confusione è indotta dalla possibilità che potrebbe esserlo veramente perché siamo in un grande albergo, in una strada secondaria di Catania, parallela ad una strada principale di Catania, in cui si trova una porta sormontata da una pensilina che introduce ad ambienti bellissimi. La tenda di broccato rosso scuro sull’ingresso della “Sala Archi” sembra quasi una porta del tempo ed un sipario: la attraversi e alla grande tavola, a capotavola, è seduto Andrea Tidona, serio impassibile con lo sguardo fisso immobile. La tavola si completa di spettatori/comparse e come per effetto di un meccanismo, nell’attore prende subitaneamente vita il personaggio, lo senti parlare come se fosse il proseguimento di un fatto già iniziato da qualche parte: un padre forte, prepotente, sarcastico…impietoso e forse anche empio; due posti vuoti vengono occupati da una figlia (Chiara Condrò) e da un genero (Stefano Skalkotos)…il maggiordomo (ora capisco) è un attore e serve la cena.
La figlia, lontana da casa per una ragione scatenata dal padre e che riguarda il maggiordomo; il maggiordomo che non si è allontanato dalla casa in cui aveva sempre prestato servizio per una ragione legata all’allontanamento della giovane. La stessa, tentando il dialogo, provocata più che accettata, svelerà al padre che si è già sposata e questi, come il pitone della leggenda, quello che si avvinghia al corpo della sua custode in un apparente quanto singolare manifestazione d’affetto, in realtà sta solo prendendo le misure di un corpo da stritolare e di cui cibarsi, provoca il genero intuendo il suo debole per il denaro in una sfida d’impronta linguistica perché infastidito da un ricorrente “insomma” nelle sue espressioni. Il padre s’insinuerà solo per pochi attimi nella stima del ragazzo che tenterà un approccio ma che sarà fagocitato senza pietà da quella gigantesca personalità (Andrea Tidona gigantesto!) la cui statura è avvertita anche da tutti noi spettatori/comparse. Quell’avverbio diventa il simbolo della frattura di un tempo e di quella che non si risanerà ed incarna “il principio sopra la pace”.
“La Cena” di Giuseppe Manfridi, per la regia di Walter Manfrè, con Andrea Tidona, Chiara Condrò, Stefano Skalkotos e Cristiano Marzio Penna, nell’ambito della rassegna teatrale del Piccolo Teatro della Città, è un’operazione senza precedenti che trova riscontro soltanto in altre operazioni dello stesso regista messinese innamorato di Comiso (in cui ha aperto un’Accademia di recitazione, regia e operatori teatrali) e di Modica (perché esiste il Teatro Garibaldi a misura d’uomo), ovvero “Il Viaggio”, “Visita ai Parenti” e “La Confessione” replicato in tutto il mondo con attori e spettatori/comparse diversi da oltre vent’anni.
Il teatro della persona, di cui io sono una delle persone perché rivesto allo stesso momento il ruolo di chi realizza lo spettacolo e di chi assiste allo spettacolo in una società che ospita lo spettacolo che è quella dell’albergo, con l’unica certezza che è quello spettatore catapultato in una dimensione che ad un certo punto si sospetta poter essere irreale perché come in un sogno, nella fase che oscilla fra la veglia ed il sonno, alcuni eventi si compongono per scomporsi improvvisamente in una sequenza disordinata..senza che si possa influenzarne il divenire. Aprire la bocca e non riuscire a parlare, avvertire fortemente la paura di cadere volando, sentire un sussurro nell’orecchio senza poter rispondere. E poi il rumore forte del silenzio dopo l’ultima battuta dell’attore e il ritorno alla realtà adeguandosi piano e magari bevendo quel bicchiere di vino che non hai avuto il coraggio di prendere durante “La Cena”…
“E’ una scoperta, un passaparola, una goccia che diventa rigagnolo e poi torrente e scorre con la forza di un fiume in piena. Cercate il teatro di Walter Manfrè nelle vostre città, nei luoghi nascosti e oscuri, nelle culle segrete dei carbonari della cultura, cercatelo sotto la cenere del vecchio teatro che non esiste più. Con Manfrè il teatro è vivo.”
(Ugo Ronfani)
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