La storia millenaria della pesca del tonno rosso (Thunnus thynnus), con le sue affascinanti e per certi aspetti ancora misteriose migrazioni, può essere letta come paradigma dinamico della gestione comune delle risorse ittiche dei nostri mari
di Gaetano Urzì
È ormai considerazione acquisita, da parte della scienza, che esistono due popolazioni distinte di tonno rosso, una dell’Atlantico occidentale e l’altra dell’Atlantico orientale, convenzionalmente separate da un confine dato dal 45° meridiano in Nord Atlantico. Questa separazione degli stock viene mantenuta in quanto identificano due grandi aree di riproduzione, una nel Golfo del Messico e una nel nostro Mediterraneo, verso cui le due popolazioni esistenti ritornano durante il periodo riproduttivo della tarda primavera.
La migrazione legata alla riproduzione della specie (migrazione genetica) è nota sin da tempi remoti. Attraverso testimonianze archeologiche è stato rinvenuto che alcune civiltà mesolitiche pescavano il tonno rosso nella Baia di Volos e nelle isole Cicladi, già tra il 7000 e il 6000 A.C..
Nella Grotta del Genovese a Levanzo (isole Egadi) si trovano graffiti raffiguranti il tonno risalenti al 9000 A.C.
Illustri studiosi dell’antichità come Aristotele e Plinio il Vecchio si sono interessati alle migrazioni dei tonni. Archestrato di Gela, gastronomo poeta, nei suoi scritti magnificenza la bontà del tonno (IV secolo A.C.).
Ma è sul finire del ‘700 che uno studioso gesuita ipotizza che i tonni rossi entrano nel Mediterraneo provenienti dall’oceano Atlantico sotto lo stimolo di esigenze riproduttive.
Il loro percorso, una volta entrati dallo stretto di Gibilterra, si indirizza da ovest verso est fino alle coste orientali mediterranee per poi ritornare in Atlantico. È lungo questo viaggio ed in questa fase che avviene la riproduzione, ma è anche il momento in cui il particolare regime correntizio del Mediterraneo e la conformazione di alcune aree geografiche fanno sì che i branchi di tonni sfiorano alcune aree costiere.
Giuste condizioni
Tutte le civiltà che si sono succedute lungo la storia e lungo le coste del Mediterraneo, hanno ampiamente sfruttato, durante la stagione propizia, queste condizioni privilegiate legate alla migrazione del pesce e attorno a queste aree sono nati siti strutturati di pesca del tonno rosso ed economie locali ad esso legate. In una prima fase, il sistema di cattura dei tonni avveniva con sciabiche da spiaggia e l’ausilio di reti di sbarramento che indirizzavano i banchi verso la spiaggia stessa, dove avveniva una sorta di mattanza naturale vicino alla battigia. La gestione del litorale era comune e gratuita a tutti i soggetti coinvolti nella pesca, i quali dividevano anche il pescato che veniva stivato in vasche, trattato e salato.
L’avvento della pesca del tonno con camera della morte, fu un’innovazione (prima metà del IX sec. d.C. nel Mediterraneo orientale) che consentì di ridurre la manodopera e di aumentare le catture e la resa degli impianti. Tale tecnica veniva praticata in mare più aperto, ad una certa distanza dalla riva, ma era collegata ai proprietari dei fondi rustici insistenti sul litorale. Attorno ad essi nacquero i primi insediamenti produttivi di lavorazione, ma anche le prime forme di privatizzazione di tratti di litorale e delle acque antistanti al luogo in cui si svolgeva la pesca, assicurando ai proprietari dei fondi costieri l’uso esclusivo. Così latifondisti, potenti ed ecclesiastici s’impadroniscono di molti lidi e del proprio mare prospiciente, spazzando via quella continuità che c’era stata tra il mondo greco e quello romano che assegnava l’uso del mare e del suo lido alla categoria delle “cose comuni” di tutti. La maggior parte delle tonnare fisse si diffusero in Sicilia intorno al 1200, durante la dinastia normanna degli Hohenstaufen. Questo sistema di pesca, nel XV secolo, contava nell’isola circa quaranta tonnare, lungo i litorali trapanesi, palermitani, nel golfo di Patti e Milazzo, nei golfi di Catania, Augusta, Siracusa ed Avola fino a Capo Passero. Il grande problema di queste strutture, che poi ne determinò anche il loro declino, era che associando la pesca alla lavorazione del pesce, il sito della tonnara diveniva una vera e propria attività industriale, suscettibile di grossi investimenti, sia nelle reti che negli ancoraggi delle stesse, sia nelle imbarcazioni. Ma anche nelle strutture murarie di grande portata architettonica e funzionale per il completamento del ciclo produttivo. Altro elemento di grande impatto economico nella gestione della tonnara era la manodopera, che era imponente. Tutti questi costi messi insieme, equivalevano a circa il 50% del valore del pescato di una annata buona di pesca. Questi elementi, per il sistema economico delle tonnare, che oggi chiameremmo “di debolezza”, fanno sì che un processo insediativo interessante che riguarda gran parte del litorale siciliano, si consolida solo nelle aree di pesca più valide e gli imprenditori che sopravvivono sono costretti a coinvolgere nell’attività i commercianti e le banche dell’epoca.
La crisi definitiva del sistema delle tonnare “fisse” avviene repentinamente tra il 1910 e il 1960, dove per cause endogene come l’estrema irregolarità delle catture, si assommano cause esterne dovute a congiunture sfavorevoli alla libera circolazione delle merci. Resta comunque un grande lascito da questa attività economica sedimentatosi nel corso dei secoli e dei millenni: un grande patrimonio antropologico di comunità marinare, di beni architettonici ed archeologici che ancora oggi danno identità esclusiva ai territori di molte zone costiere del nostro paese. Oltre alla storia gastronomica del cibo legato all’uso del tonno rosso. Oggi se andiamo a Favignana, a Bonagia, a Carloforte, a Portoscuso, a Marzamemi, a Capo Passero, in alcune zone della Campania e della Calabria, a Camogli, ma anche da altre parti d’Italia, questa identità legata alla tonnara e al tonno stesso è l’identità immanente dei loro borghi e territori.
La crisi
Gli ultimi cinquant’anni della pesca del tonno rosso, epoca della cosiddetta “modernità”, ci danno poche luci e grandi ombre. Negli anni ’70, con la crisi delle tonnare fisse, si afferma il modello delle tonnare volanti. In realtà è un passaggio che avviene dal sistema della rete a circuizione (cianciolo) a una uguale ma più grande in lunghezza e più resistente in consistenza, fatta di reti di nylon molto più grosse e con maglie più grandi, adattata per la pesca dei tonni in mare aperto e in tutto il Mediterraneo. È così che buona parte dei ciancioli salernitani, calabresi e siciliani, diventano anche tonnare volanti, demolendo e ricostruendo pescherecci di stazza e lunghezza maggiore, anche in ferro, soprattutto a Salerno ed in alcune marinerie siciliane. In quel periodo, fino agli anni ’90, si pesca indiscriminatamente da maggio fino a novembre, in lungo e in largo le coste italiane, a maggio in medio e basso Adriatico e dal primo di giugno nel Tirreno e nel canale di Sicilia, con esemplari di tonno rosso che variano dai 10-30 kg fino ai 300-400 kg cadauno. In particolare, in autunno, nel mar Ligure e lungo le coste francesi mediterranee vengono pescati esemplari sotto taglia (taglia minima 30 kg). Sono noti nei primi anni ’80, periodo di libertà assoluta di pesca, casi in cui il pescato, rimanendo invenduto o non ritirato dalle aziende di trasformazione, veniva poi buttato in fosse a terra.
Terra di conquista
Nei primi anni ’90, il Mediterraneo, soprattutto il canale di Sicilia, diventa terra di conquista di navi fattoria giapponesi e coreane, che con palangari lunghi anche 200 km, catturano ingenti quantitativi di tonno rosso che viene subito sezionato, catalogato nella sua qualità e congelato a bordo. Questa situazione ha creato anche conflitti con i piccoli pescatori costieri siciliani e ha posto un grande tema per quanto riguarda la gestione di una risorsa naturale in un ambito di acque territoriali e non. Anche perché nel Mediterraneo non è possibile istituire le ZEE (Zone Economiche Esclusive di pesca) in quanto mancano le distanze geografiche tra un paese rivierasco e l’altro (200 + 200 km). Alcuni paesi, tra cui l’Italia (nel 2006) hanno introdotto delle zone di protezione ecologica oltre il limite delle acque territoriali, ma comunque di estensione limitate e per la tutela di altre risorse. In questi anni, ognuno ha cercato di arraffare come poteva. Le tonnare volanti, per difendersi dalla caparbietà e dalla supremazia incontrollata delle flotte del Sol Levante, hanno cominciato ad utilizzare ausili di grande impatto, come l’uso di aerei per l’individuazione dei branchi più numerosi di tonno rosso, senza alcun vincolo di tonnellaggio di pescato, e introducendo l’uso di grandi gabbie galleggianti per lo spostamento dalle zone di pesca e di stabulazione su determinati siti (Malta e Spagna in particolare) dove il tonno viene tenuto in cattività, cibato con pesce azzurro fresco e congelato in attesa di essere prelevato dalle gabbie e venduto alle compagnie nipponiche.
A questo stato di cose, con un prelievo di risorse tanto indiscriminato, quanto non gestito, si è cercato di porre rimedio. L’Unione Europea (e quindi l’Italia) essendo parte contraente della Convenzione internazionale per la conservazione dei tonni dell’Atlantico (G.U. L. 162 del 18.6.1986, pag. 34, che istituisce anche l’ICCATl’International Commission for the Conservation of Atlantic Tuna) nel 2006 adotta una raccomandazione (entrata in vigore il 13 giugno 2007 e la cui scadenza è fissata nel 2022) volta ad istituire un piano pluriennale di ricostituzione del tonno rosso nell’Atlantico orientale e nel Mediterraneo. Nel quarto punto dei considerata recita testualmente: Il piano di ricostituzione dovrebbe tenere conto delle specificità dei diversi tipi di attrezzi e tecniche di pesca. Nell’attuare il piano di ricostituzione l’Unione e gli stati membri dovrebbero adoperarsi per promuovere attività di pesca costiera e l’utilizzo di attrezzi e tecniche di pesca selettivi, caratterizzati da un ridotto impatto ambientale, compresi gli attrezzi e le tecniche utilizzate nella pesca artigianale e tradizionale, contribuendo in tal modo ad un equo tenore di vita per le economie locali. L’ICCAT, dal 1998, visto lo stato di forte diminuzione dello stock di tonno rosso introduce un sistema di gestione attraverso l’imposizione di quote di pesca per ogni paese aderente, le cosiddette TAC (Totale ammissibile di cattura). Le TAC però, almeno in Italia, hanno creato una disparità di trattamento tra i vari comparti interessati con un forte sbilanciamento a favore delle tonnare volanti (circuizione). Questo segmento con soli 12 Motonave assorbe il 74,1% dell’intero contingente assegnato all’Italia (2.886,33 Tonnellate). Il palangaro il 13,5% (527,46 Tonnellate) con 30 Motopescherecci. Alle tonnare fisse l’8,43% (328,35 Tonnellate). Alla pesca sportiva/ricreativa 0,478% (18,61 tonnellate) e a una quota non divisa o accidentale il 3,42% (133,37 Tonnellate). Nel 2019 e nel 2020, stante i segnali di ripresa della risorsa, verranno assegnate ulteriori quote sempre con lo stesso criterio e incremento percentuale.
Se svolgiamo una attenta analisi di questi dati dal punto di vista economico, occupazionale, considerando l’utilizzo della risorsa in riferimento agli sbocchi commerciali e l’esclusione di migliaia di piccoli pescatori artigianali e costieri tagliati fuori dall’utilizzo di questa risorsa tradizionalmente legata ai loro territori costieri di pesca, lo sbilanciamento è chiaro e pone problemi di natura anche etica, in riferimento ad una risorsa naturale che è patrimonio comune.
Il sistema della circuizione con i suoi 12 natanti crea un’occupazione diretta (15/16 persone d’equipaggio per motonave) di circa 190 addetti con un fatturato, considerando i prezzi di vendita attuali, di circa 35 milioni di euro. La filiera, che vede le Compagnie maltesi e spagnole quali acquirenti dell’intero stock italiano nonché gestori dei siti di stazionamento dei tonni nelle gabbie, si chiude con la vendita alle multinazionali giapponesi. Naturalmente sono queste due realtà che traggono il maggiore valore aggiunto. E questo valore aggiunto, nel mercato di Tokyo, tocca livelli impressionanti. All’asta di Tokyo nel gennaio del 2013 un tonno di 220 kg è stato battuto per 1,3 milioni di euro. Il sistema dei palangari con i suoi 30 motopesca (5-6 persone d’equipaggio in media per natante) crea un’occupazione diretta di circa 180 addetti ed un fatturato di circa 6 milioni di euro. Questo è il solo pescato che alimenta il consumo diretto italiano, ma è poca cosa. Il pescato dell’unica tonnara fissa oggi in attività (Carloforte) finisce anch’esso nelle gabbie spagnole e quindi va in Giappone.
Le flotte delle navi giapponesi e coreane hanno smesso di pescare nel Mediterraneo a metà degli anni 2000 quando un accordo, promosso dal governo italiano, ha di fatto destinato più dell’80% della quota italiana al mercato giapponese. In cambio le flotte orientali non sono più tornate a pescare nel Mediterraneo. Questa stortura taglia di fatto i consumatori italiani dall’utilizzo a fini gastronomici di una storica risorsa ittica, patrimonio della cultura culinaria italiana.
Ma una risorsa naturale, a rischio di sopravvivenza, naturalmente autoriproducibile e caratterizzata da una forte migrazione che interessa intere aree costiere della Terra, quale è la popolazione del tonno rosso, può essere gestita e “sfruttata” solo da lobby economiche? Può essere gestita e sfruttata senza tenere conto che della sua fruizione non può essere escluso nessuno, anzi, essendo di fatto un bene comune bisogna stabilire delle regole che ne permettano l’utilizzo tendenzialmente universale prevenendo, appunto, l’esaurimento della stessa?
E allora i piccoli pescatori artigianali, i consumatori responsabili, gli ambientalisti, i democratici devono fare fronte comune per combattere le lobby economiche e finanziarie che stanno distruggendo le risorse naturali e il futuro stesso del nostro Pianeta.
-Tratto da “La terra trema”-
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