Le cifre tonde sembrano essere per Eduardo Saitta, obiettivi di crescita emotiva e professionale, e punti di partenza verso il conseguimento di altre emozioni e verso la formulazione di altri progetti. A vent’anni, comincia a guardarsi intorno, a girare fra camerini e palcoscenici, prestando attenzione ad ogni genere di particolare riuscisse a suscitare non tanto la sua curiosità quanto la sua voglia di conoscere il teatro da ogni prospettiva. A trenta, il padre Salvo Saitta, gli lascia la guida dell’attività. Cresciuto in una famiglia che col teatro per un verso e per un altro, ha sempre avuto a ché fare: mamma e papà, attori; pro-zio Sestilio Saitta Cailler, attore e fotografo; il nonno Guglielmo, vigile del fuoco che spesso espletava il proprio servizio in teatro; la cugina Katy, figlia del fratello grande del papà ed attrice anch’ella. Del teatro ha una cognizione globale: dalla vite di ancoraggio delle poltrone a quelle delle luci. Come si staccano i biglietti, come si apre e chiude un sipario, come si collabora come direttore di scena, come regista, come attore.
Suo padre non gli ha riservato trattamenti di favore: una sera, ad esempio, dopo essere tornato dallo Stabile di Catania – ad appena dodici anni, era stato scelto da Lamberto Puggelli per recitare ne “La Nuova Colonia” di Pirandello – suo padre gli disse di posizionarsi alla chiusura ed apertura del sipario. Come dire: “i piedi sempre a terra…”
Eduardo Saitta, oggi quarant’anni; interamente trascorsi in teatro, ventotto da attore ed addetto ad ogni mansione tecnica ed amministrativa. Ha respirato ogni soffio, assunto in sé ogni gioia ed ogni ansia; è rimasto a guardare dalla platea gli attori che provavano col padre, ha rubato ogni dono essi potessero rilasciare quasi senza accorgersene; ha ascoltato conversazioni, scambi d’opinione da dietro un muro, presso una porta socchiusa, prendendo in sé ogni cosa abbia potuto trattenere.
In occasione del suo compleanno, Eduardo Saitta si è regalato, ha regalato al suo pubblico uno spettacolo da “one man show“, intitolato “Occhio al buco della serratura”, dal 21 Febbraio sino al 10 Marzo in scena al Teatro Angelo Musco di Catania, nell’ambito della Rassegna del Teatro dei Saitta. Con la complicità di una psicologa (interpretata dall’attrice e youtuber, Federica Gambino) che vuole studiare l’attore nell’esercizio delle sue funzioni per scrivere la sua tesi di laurea, declinerà ricordi personali e vecchi cavalli di battaglia, assicurando una buona dose di stupore dal momento che alle fragorose risate si avvicenderanno inattese pause di riflessione.
– Eduardo, di quel lontano giorno di Novembre, in cui suo fratello, con la scusa di andare a prendere un gelato, lo iscrisse al provino di Lamberto Puggelli, cosa ricorda con maggiore dettaglio?
Avevo dodici anni e qualsiasi particolare minuto di quel giorno è rimasto ancorato nella mia memoria; ma principalmente, Aldo Toscano che ci informa di questo evento; appunto, lo strano invito di mio fratello ed infine la faccia di Marcello Perracchio (facente parte del gruppo di valutazione – riunito a Palazzo Bruca – insieme a Piero Sammataro, Maddalena Crippa e Giovanni Anfuso) quando si alza dalla sedia e mi fa sedere al suo posto, dopo avermi sentito leggere Pirandello con tanta tranquillità e senza seguire il rigo col dito.
– E da quel momento?
Da quel momento, ho cominciato a studiare “sulle tavole”, specializzandomi sul palcoscenico. Non riuscivo a frequentare con continuità la scuola, essendo partito per due lunghe tournée, giusto in coincidenza del primo anno di ragioneria: prima con Turi Ferro ne “I Viceré”, e poi con i “Malavoglia”. Ecco questa scrivania – battendo su un massiccio ed importante tavolo antico – ha cinquantacinque anni ed apparteneva a mio nonno. E’ un oggetto a cui tengo moltissimo e che non lo mollerò mai. Io sono uno che si lega alle cose, cercando di conservarle più a lungo possibile.
A vent’anni, ho cominciato ad occuparmi dell’aspetto imprenditoriale del teatro di famiglia. Certo, non subito: mio padre sulle prime faticava ad accettare le mie idee che riteneva un po’ fuori dal coro, che sposavano progetti dal temperamento un po’ audace. Ma piano piano, dopo dieci anni di confronti, scaramucce, aggiustamenti, mi venne passato in piena fiducia il testimone dell’attività. La prima decisione che presi fu quella di non chiedere più un solo centesimo di contributo regionale, soprattutto dopo lo spiacevole frangente che vide indagati ingiustamente settantadue teatri a causa di una forzatura d’interpretazione nel merito di un’autocertificazione. Non riesco a nascondere il mio disappunto verso questa faccenda e dunque da allora il teatro dei Saitta vive di pubblico, di abbonati e di biglietti. Poi, decisi di investire anche sulla programmazione, facendo progetti triennali, rinnovando le proposte del teatro siciliano ed aumentando il numero di repliche.
– Cosa vuol dire per Eduardo Saitta “capocomico” fare Teatro?
Adattare, sveltire, inserendo una nota di colore nei vecchi testi: io sono contro le versioni integrali dei classici, possono dirmi che non sono un conservatore, che sono uno smembratore di testi! Nella mia edizione de “L”Aria del Continente”, ad esempio, ho preso Martoglio senza mancargli di riguardo, ho levato il secondo atto, dando maggiore sottolineatura al terzo, e a Cola Duscio D’Angelo, dal continente ho fatto portare un uomo di casa un po’ femminiello per formare oltre modo lo scandalo, rafforzando la momentanea conversione alla modernità di Cola. A questa edizione di 10 anni fà, abbiamo lavorato papà, Miko Magistro ed io. Mio padre mi ha sempre detto che devo avere l’onestà intellettuale, la misura dei miei mezzi; dunque, io ho pensato alla necessità di avere un’identità forte che fosse solo la mia; è cominciata da lì la mia passione nell’elaborare i classici del repertorio siciliano.
– Lei crede nella “Rete” ?
Io faccio rete: ho creato un circuito di ventitré teatri, “I teatri dell’Isola”, prendendo spunto da una piccola ma dignitosissima realtà culturale del paese di Floridia. Qualche anno addietro, incontro il direttore artistico, Francesco Torneo che mi confida la sua volontà di premiare il pubblico del suo paese che si è stancato di vedere solo teatro locale e chiede il mio aiuto per far arrivare “Il berretto a sonagli” con mio padre, mettendomi a conoscenza anche delle esigue risorse di cui dispone. Io non mi tirai indietro e rispetto alla solita domenica pomeriggio, gli feci aggiungere il sabato. La collaborazione portò risultati magnifici, anche in ordine alla eco che l’iniziativa aveva prodotto nelle realtà teatrali limitrofe che sono innumerevoli, e piene di qualità e spessore. Da allora, io formulo i cartelloni con programmazione triennale per ventiquattro stagioni (compresa la mia). Spesso cerco di fare arrivare lavori come “Per non morir di Mafia” del bravissimo Sebastiano Lo Monaco; porto in giro, anche se ad anni alterni, qualche lavoro della mia compagnia; insomma, cerco di amplificare il lavoro delle compagnie amatoriali (degnissime), cerco di fare rete, dando consulenza a titolo assolutamente gratuito e promuovendo la circolazione dei lavori. Anni fa, Salvo Fleres tentò di istituire un consorzio regionale deputato proprio alla rete, ma non se ne fece nulla perché ogni compagnia siciliana voleva spadroneggiare.
-Cosa serve oggi per fare teatro in generale? Una nuova ricetta?
Le formule giuste per fare teatro sono sempre le stesse: in una ciambella si mettono sempre gli stessi ingredienti di base e poi si aggiunge un aroma, diverso, ogni volta. Il teatro non è in crisi: è che qualcuno che lo fa non lo sa fare. Molti teatri con cartelloni straordinari (ABC, Brancati) sono stracolmi; chi dice che il teatro è in crisi lo afferma perché non ci ricava nulla o ciò che ci ricavava una volta; oggi bisogna accettare numeri inferiori, e vivere di altro. Avere spirito pionieristico, innanzitutto: ad esempio, io vado al Comune di Nicolosi (ovviamente col mio bagaglio di esperienze), chiedo il teatro per una, due sere, apro le porte della villa comunale alle sette di sera e alle sette e venti tutto esaurito. Lo posso confermare. Non si può più cercare di fare teatro aspettando di essere introdotti nell’ambiente e di essere scritturati, è necessario sbracciarsi e lavorare sodo.
Il pubblico, sebbene cambiato nei gusti, nelle preferenze, è sempre comunque legato al teatro: a Niscemi, fino al momento che non si è organizzata in loco una rassegna, le persone si spostavano nei teatri vicini; non è vero che non c’è curiosità o solo voglia di ridere. Il pubblico va educato si, ma anche rispettato e coccolato, con cartelloni variegati, costi abbordabili. I giovani attori vanno promossi dai grandi: cosa succederebbe se non si riuscisse a rigenerare queste tre condizioni necessarie: pubblico, attori e proposte culturali?
Mio padre, ha favorito la formazione di tutti gli attori che sono passati dal nostro Teatro: è sempre stato generoso con me, mia cugina Katy, ma anche con chi della famiglia non faceva parte, ma faceva parte della compagnia. Dal canto mio, sebbene a me nessuno abbia mai regalato solo dieci centimetri del suo palcoscenico, io ho voluto che l’attrice che mi affianca in “Occhio al buco della serratura” (Federica Gambino) avesse il suo momento di visibilità, dal momento che ciò che guadagna le serve anche per pagarsi i corsi di studio, è giovane e piena di buona volontà.
– Quando si chiude il sipario e si spengono i riflettori, cosa pensa Eduardo Saitta?
Non nascondo che fare quasi tutte le sere “il tutto esaurito” mi compiace enormemente: è il nostro lavoro e viviamo di questo. Ma quello che spero ogni sera, è di essere riuscito a far innamorare la gente di me che sono al servizio dello spettatore.
Buon Compleanno, Eduardo!
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