NOVE è una poesia declamata con garbo. Arriva in fondo all’ultimo rigo, facendoti tirare su col naso ed asciugare le lacrime sin dalle prime parole. Lacrime per la consapevolezza, anche dietro una buffa battuta; ironia, tagliente a volte, discorsiva nel ripescaggio familiare delle generazioni che sono state con le proprie storie, tradizioni, affetti e comprensioni.
Nove è una storia che scivola come un ruscello, quietamente senza aggressività.
E’ una storia sussurata ad un amico fraterno che possiede l’attitudine naturale di filtrare senza disconoscere ma aggiungendo colori, suoni e sapori stupefacenti. Più facile, perchè è una gioia condivisa; più immediata nel suo sviluppo perchè basta dare ascolto al cuore e leggere i diari della propria vita. E’ il frutto di una fatica che poi, nella complicità affettuosa diventa momento di grande teatro.
Nove è un racconto dove ad un’impronta se ne aggiunge un’altra, e poi un’altra ancora, sino all’ultima in ordine di tempo, un’impronta piccola che da poco ha imparato a camminare.
Nove è un tessuto a punto croce, pulito sul davanti ed ancora di più sul retro; preciso come quella geometria necessaria da seguire per lo sviluppo di un ricamo.
E’ prezioso questo tessuto, mostrato agli altri, sino ad ora conservato come in un cassetto di un mobile antico, appartenuto a Cocò – il nonno famoso calciatore del Catania, caro persino ad Angelo Musco – a Tina, a Marina e a tante femmine figlie, cugine, sorelle, madri e nonne…una nonna che sopravvive alla figlia senza giacere sul dolore per amore dell’esistenza di una nipote di appena sette anni, Egle Viviane Doria. Un dolore che nell’età più anziana, Tina rifugge in uno stordimento fisiologico, necessario per dimenticare. Una famiglia che è una culla, una protezione una semplificazione per tutto ciò che sarà difficile fuori, al di là di quel balcone che si affaccia sul mondo, un mondo attraversato dal verduraio, dal gelataio, dal cantante neo-melodico che sanno cosa? Quel poco che si vede…Ma quel ruscello scivola da solo, lasciato ad una solitudine in modo incurante ma che ad un certo punto cerca e trova la vita a prescindere. A prescindere dal giudizio della gente, a prescindere dal pregiudizio della gente. In fondo cosa cambia? Si può frenare la necessità di amare? Prorompente come la Natura che intanto diviene e nella quale sono evidenti e necessari tanti di quei meccanismi a prescindere dal sesso, dal colore, dalla specie, che fanno di un caso, di una tendenza, un risultato ancora più bello!
La vita di Egle Viviane Doria si risveglia, prende una decisione, scorre ed incontra l’evoluzione, la soluzione, incontra l’amore, quello che è solo amore e basta, che dà e non chiede. Non è forse Amore quello verso un cane, verso un gatto, verso la propria casa, verso il proprio Paese, verso il proprio lavoro, verso la famiglia, verso un uomo, verso una donna? Il cuore in cui sono conservati tutti i ricordi emotivi più istintivi e veri è uno ed uguale dentro a un petto di donna, di uomo, dietro ad un colore che sia nero, giallo, rosso o bianco. Chi dice al cuore cos’è veramente bene o male? L’amore verso il bene amato; poi, il cervello ci mette lo zampino come il diavolo ci mette la coda! Ma quello è tutto un altro discorso che porta ad isolare una principessa dalle storie di altri, che porta lontano dai banchi di scuola le esperienze necessarie per crescere, che alza muri e crea ampolle. Ma all’ombra di un muro, niente è destinato a svilupparsi; in un’ampolla, piano piano si andrà in debito di ossigeno e la vita morirà.
L’attrice racconta una storia, la sua, nella quale per certo tempo e per certi versi si è trovata sola nelle paure di donna che deve dar conto ad un orologio che le vive dentro e non sul polso o sulla parete; nella solitudine di un matrimonio andato in frantumi e da cui non è stato generato alcun frutto; sola in uno Stato che ancora non recepisce “l’assistenza”, che affibbia etichette, e poi sola in un altro Stato che l’ assiste ma non è casa sua. E nella necessità di prendere decisioni veloci e coraggiose, la solitudine e la paura verranno bandite, messe alla porta da una voce preziosa, una voce che ti saluta e dice “Ola, soy Maria!”
Egle Doria quando appare sul palcoscenico ha il bene proprio del carisma personale che la rende evidente rispetto al contesto; eppure (io ormai l’ho vista molte volte recitare), è come se cercasse sempre di scivolare via per dare evidenza agli altri. Come, si chiederà il lettore non ancora spettatore, dal momento che di monologo si tratta? Ecco, io “Nove” lo definirei un monologo apparente, perchè sin dalla prima scena giungono dai contesti relativi tutti i personaggi: Fede che parla con Egle al telefono, Renato che vuole le locandine un anno prima, lo zio Alberto che ha chiamato “Mario” il cane, Matteo che si vuole fidanzare con Marina, le copiose zie copiosamente signorine, e gli stessi spettatori che lei coinvolge offrendo loro il caffè, ma letteralmente. Persino l’intonato intervento sul palcoscenico di tre persone del pubblico, invitate in un gioco grazioso, quello di tre stranieri in una terra che stranieri non ne vuole più.
(Uno di questi attori improvvisati del debutto è Margherita Mignemi che in pochi minuti porta di sé tutta la sua carica di simpatia e bravura).
Egle Doria è percorsa da una emozione e da una fatica che non riesco a descrivere se non nelle perle di sudore e nelle lacrime liberatorie che restano su lei come traccia della sua performance di una e mille personaggi con un bagaglio di storie ciascuno. Si siede in basso sul palcoscenico, Egle col vestito di damasco, lento sui fianchi perchè deve accogliere la vita che cresce; si siede per guardare all’altezza degli occhi gli spettatori e dice “ecco: vi ho raccontato una storia, dentro la quale ci sono le storie della mia famiglia, ma nella quale chissà quanti riverberi delle vostre storie delle vostre famiglie sono giunti sino a voi. Non ho giudizi per gli altri, ma vi domando soltanto: “ché giudizio può essere espresso rispetto all’amore che c’è dentro la storia che ho offerto al vostro ascolto..?”
Le lacrime che ormai scendono senza remore, ritardano l’applauso, poi divenuto interminabile, perchè siamo tutti assolutamente rapiti e quello che personalmente mi porto dentro è la grande dignità, di questa donna, di queste donne…Tina, Marina, le zie signorine, Egle, Maria e Marina, quella che con le sue piccole impronte comincia a calpestare il mondo, facendosi sentire.
Scritto di getto, spontaneamente, copiando dai diari del cuore, di inestimabile valore umano e con risvolti socio/culturali affatto sottintesi, sebbene affrontati con leggerezza. La leggerezza che Nicola Alberto Orofino (padrino ufficiale della piccola Marina) riesce sempre a profondere in ogni sua costruzione registica, riconducendo così ogni vicenda anche quella tragica e mitologica alla realtà del quotidiano, alla dimensione dell’umano. Vincenzo La Mendola ha curato per il Teatro del Canovaccio una magnifica scenografia con artifici semplici: parallelepipedi – di cui solo uno mobile, quello al centro – rivestiti con lo stesso tessuto usato per confezionare l’abito che indossa l’attrice. Dietro le quinte lui e Gabriella Caltabiano (aiuto regista) hanno lavorato con tempistica per collocare gli accessori che appaiono per significare i brani del monologo. Un lavoro sinergico, in cui è evidente che tutto il gruppo di lavoro ha creduto nel progetto di Egle Viviane Doria; progetto che conclude brillantemente la settima rassegna di Palco Off (Francesca Romana Vitale e Renato Lombardo, direttori artistici), una stagione teatrale che ha destato credo solo insignificanti e circoscritte perplessità.
NOVE, con Egle Doria; regia di Nicola Alberto Orofino e assistente alla regia Gabriella Caltabiano; scene e costumi Vincenzo la Mendola; assistente scenografo Enzo Pace; foto di scena Gianluigi Primaverile; Comunicazione a cura di Stefania Bonanno.
Testo e produzione Madè
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