Nel maggio del 1999, all’età di diciannove anni, Nicola Alberto Orofino debutta ne “La cantatrice calva” di E. Ionesco al Piccolo Teatro della Città. Rimane, dunque, nelle sue fibre l’amore per il “teatro dell’assurdo” generato dall’ ecletticità dello scrittore naturalizzato francese, di origini rumene vissuto fra Bucarest e Parigi dal 1909 al 1994. Così, per la produzione di MezzAria, ha portato in scena “Delirio”, tratto da “Delirio a due” e “La Cantatrice Calva” di E. Ionesco. Con Alice Ferlito e Francesco Bernava, la scenografia, costumi e disegno luci Vincenzo La Mendola, avvalendosi dell’ assistenza alla regia di Gabriella Caltabiano. Organizzazione Filippo Trepepi per il Piccolo Teatro della Città di Catania. Praticamente un ritorno alle origini.
Ionesco, che faticò per far riconoscere la sua come una letteratura drammatica non affatto squinternata come al tempo la critica tendeva ad archiviare, esprimeva il suo punto di osservazione sui rapporti umani attraverso un linguaggio, studiato e sperimentato che nel suo paradossale svolgimento doveva affermare che in fondo il dialogo contiene in sé già qualcosa di assurdo, complesso e complicato nell’atto dell’espressione, essendo l’uomo maggiormente portato all’ascolto del sé; che le curve a gomito in cui le relazioni rallentano o si spingono non debbono necessariamente essere un problematico e delirante divenire, ma servano a porre fisiologicamente il rapporto in quanto relazione fra esseri.
Alice Ferlito e Francesco Bernava sono una coppia che molti anni prima ha compiuto scelte determinanti a discapito di relazioni già consolidate, di mestieri già scelti, per vivere insieme ed avviarsi verso l’impresa della recitazione teatrale. Durante le prove di un lavoro, si trovano a condividere accadimenti surreali legati all’ambiente, episodi nei quali s’intersecano realisticamente i loro litigi che altro non sono che il rinfacciarsi il sacrificio, le scelte operate, forse l’inutilità delle stesse. Colpi di spazzola, uno sguardo trasecolato, manifestazioni di scontento della compagnia teatrale, la ricerca di un rifugio all’interno del teatro che sembra diventare a tratti un labirinto nel quale si è entrati per scelta e dal quale non si riesce ad uscire per sorte.
I due attori dai grandi ed omologati professionisti quali sono, hanno definito con accenti notevoli i propri personaggi, rendendoli sopra le righe quanto basta; lo hanno fatto con arte e grande naturalezza. Sicuramente la reciproca conoscenza e la indovinata regia hanno reso perfetta la evidente intesa che si percepiva dalla platea.
L’arte di Vincenzo La Mendola di arredare lasciando quasi spoglio il palcoscenico ma riempendo di dinamicità lo spazio, ha consentito ad un lenzuolo ed ad un’asciugamani di diventare letto, finestra, tetto, tovaglia.
Una resa interessante grazie a ottime regia ed interpretazione e dunque scenografia e studio del movimento. Ma sembra che rimanga solo tentativo l’approccio all’assurdo di Jonesco, come se si arrivasse lì per definirne l’ispirazione ma non si raggiungesse l’intenzione. E’ pur vero che adattare Ionesco non sia ufficio semplice: lo scrittore, dopo la seconda Guerra mondiale, sentì il bisogno di esprimere la realtà attualizzando il linguaggio sopra ogni cosa, essendo state cancellate la Morale e qualsiasi forma di rispetto che andavano recuperate poiché nell’uomo “qualunque” sopravvissuto, era rimasto un vuoto gigantesco riempito solo dalla paura di non sapere verso cosa andare. Si formò dunque il “Teatro Nuovo” qualificato ulteriormente come “Teatro dell’assurdo“, per esigenza di scrittori come Ionesco o Beckett. Insomma, la medesima esigenza che determina un regista inconsueto e brillante come Orofino a rivedere il canale di trasmissione perché oggi l’uomo è più che mai “qualunque” e spaesato perché orfano di qualsiasi curiosità.
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