di Matteo Licari
Dimenticare è divino e vi spiego perché. Quando e ricordiamo e ripetiamo, consolidiamo ciò che siamo. E’ così nei riti, nelle abitudini, nelle routine e nei copioni consolidati con cui interagiamo nella vita quotidiana. Proprio come un linguaggio, proprio come nel linguaggio, le cose che abbiamo appreso si accostano e si legano fra di loro creando una sorta di sintassi: una grammatica interna con la quale leggiamo il mondo. Tuttavia occorre prescindere per un po’ dalle nostre risposte per ascoltare l’altro. Siamo pieni di risposte e di significati più o meno globali della vita e questi significati, queste convinzioni maturate nel corso dell’esistenza, sono una sorta di bagaglio che portiamo con noi, una mappa con la quale interpretiamo il mondo. Alcune sono talmente radicate che diventano una sorta di sfondo, qualcosa con cui ci identifichiamo: una vibrazione di fondo che ci rappresenta a tal punto che, se non indagata, diventa una sorta di Io sostitutivo, quel qualcuno di cui sono talmente convinto che, non c’è più bisogno che io pensi. Sennonché, ogni tanto, ci accorgiamo che altri la pensano in un modo diverso, che ci sono punti di vista distanti con cui ci tocca fare i conti. Possiamo condividerli o meno, trovarli interessanti, inquietanti, diversi, stupidi, incomprensibili. A volte queste visioni del mondo in cui ci imbattiamo, si incastrano bene con le nostre, i linguaggi sono simili, sembra di parlare due dialetti non tanto diversi e ci si capisce. Ci si sintonizza, come si suole dire. Si riesce, a volte. Se non si è troppo rigidi! Ci si riesce se per un po’ ci si dimentica di sé, delle proprie convinzioni e di qualche parte della propria mappa delle convinzioni. Le volte in cui non si riesce, quelle volte in cui non si è in grado di fare spazio ad altri punti di vista e ci si fissa nel proprio, ci si ripete: ci si ostina in una posizione, si fatica a capire, ci si irrigidisce. In altre parole ci si comporta come quello scorpione di una favola indiana, che, volendo attraversare un fiume e non sapendo nuotare chiede aiuto ad una rana. La rana, all’inizio rifiuta ma poi si lascia convincere dalla buona motivazione dello scorpione che le spiega che non gli converrebbe pungerla perché anche lui, se lei morisse a metà del guado, affogherebbe. Tuttavia, in mezzo al fiume, inesorabilmente, lo scorpione punge la sua traghettatrice; Quando la rana morente lo lascia cadere in acqua, lo scorpione prima d’affogare le dice: “che cosa vuoi farci, mi dispiace, è la mia natura”. Lo scorpione non cambia perché non è in grado di dimenticare una sua caratteristica che diventa, così, la sua natura. L’invito è dunque a lasciare aperto un canale: a non chiudersi involutivamente in ciò che si sa e si è. Questa apertura non è solo tolleranza per il diverso, apertura all’altro, integrazione e altre ottime intenzioni; è anche principi morali che aiutino a superare le rigidità dello scorpione. Il dimenticare è un gesto attivo. E’ la volontà di non dare risposte assolute e di continuare ad interrogarsi. Non è smettere di avere memoria quanto piuttosto rendere attivo anche il ricordare: sapere dove stiamo pescando, distinguere lo sfondo su cui proiettiamo le nostre idee, cercare di rendere cosciente la coazione a ripetere e lasciare spazio alla scoperta. “Se il chicco di grano non muore non dà frutto” diceva ai suoi amici Uno che la sapeva lunga, in Galilea, tanto tempo fa.
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