Il desiderio di ciò che non è stato mai
Per la gioia dei miei quattro lettori, oggi mi occuperò di un mito greco tra i più conosciuti e altrettanto mal compresi, quello di Orfeo e Euridice.
Narrato con diverse sfumature in periodo classico, il mito ci parla di Orfeo che perde Euridice il giorno delle nozze, ottiene di scendere nell’Aldilà per ritrovarla e liberarla dalla dimora di Ade e della Regina Persefone purché, come si addice alle fiabe, rispetti una condizione particolare (che non si volti a guardare durante la fuga); la sua esitazione all’ultimo momento, lo sguardo gettato sopra la spalla per assicurarsi che lei lo segua, la scomparsa di lei, scivolata irreparabilmente tra le ombre … perché? A causa del dubbio di Orfeo? O della sfiducia in lei? O della sua diffidenza verso la donna, una variabile indipendente, disubbidiente che appartiene alla natura più che alla Civiltà? Oppure perché Orfeo è un puer aeternus sconsiderato e negligente? O magari Euridice non aveva nessuna intenzione di andare con lui e ha lasciato la presa? O forse Orfeo aveva ragione a lasciarla perdere, come si legge in molte versioni medievali moraleggianti: era già in partenza una poco di buono e meno male che lui se n’è accorto all’ultimo momento.
Chissà, forse la “Hyponoia”, l’ermeneutica tradizionale secondo i greci, voleva dirci altro. La spiegazione dell’errore fatale, con discreta probabilità, sta nella dedizione di Orfeo a ciò che è altrimenti, che è altrove: alla sua cetra, alla sua testa che ancora canta, alla poiesis, alla sua creazione poetica. In un tale mondo non c’è posto per Euridice, se non come spettatrice, come uditrice ammaliata.
Mentre la lasciava andare – o mentre lei lasciava andare lui -, mentre si voltava a guardare perché lei stava lasciando la presa. forse Orfeo vide che non era lei che desiderava, bensì la nostalgia ispirata della sua immagine. Era l’immagine di Euridice che Orfeo aveva bisogno di tenere stretta, non la sua mano. Perderla per averla sempre, la perdita come pegno d’amore. In quel momento ha inizio la fatale castità di Orfeo. La castità come fedeltà energizzante all’immagine amata – come Petrarca, come Dante – la castità della nostalgia imposta dalla vocazione poetica. Una vocazione che rende possibile una immagine cosmologica della realtà, orfica appunto.
Come scrisse Rumi in innumerevoli versi, ciò di cui abbiamo nostalgia è la nostalgia stessa. Dimmi per cosa ti struggi di desiderio e ti dirò chi sei, ripetevano in romantici tedeschi; era la Sehnsucht, la bramosia. Da questa divina nostalgia viene la poesia, vengono i canti; e l’assenza di Euridice è presente nella poesia amorosa, nelle arie immortali dell’opera lirica italiana, nella immediata presa emotiva del romanticismo, dalle ironiche e raffinate storie di amore di Ovidio alle allusioni shakespeariane, a Orfeo, ad Anna Karenina, al bovarismo, fino a Hollywood.
Orfeo è il dio della umana, troppo umana malattia della Sehnsucht che ci affligge con solitarie rimembranze, il nostro doloroso struggimento per una bellezza assente che ci parla di ciò che non può essere, di ciò che non è stato mai, come stranieri su di una spiaggia remota, lontani da ogni patria e incapaci di smettere di tradurre in poesia le pene laceranti che corrodono l’anima.
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