Il cellulare altro non è che un imbuto, dentro al quale si strozzano tutte le nostre possibilità di restare umani.
La realtà fluida alla quale ci ha abituati ha tagliato il cordone ombelicale con il mondo naturale, l’unico in cui possiamo riconoscerci. Immagini, storie, informazioni: tutto a portata di display, di occhio, ma non di coscienza. Pixel, luce artificiale che influisce anche sui ritmi del sonno. La coscienza si forma nell’esempio di una famiglia che funziona, che esiste, nei libri che si sfogliano, in una scuola che attenzioni e non tralasci, dove i professori non vengono esautorati delle loro istituzionali funzioni di tutori dell’apprendimento. Non può essere formata da opinioni ridondanti, come la nostra autostima non può scalare solo il numero dei “mi piace”.
Ventiquattro persone incapsulate in un pensiero morto sono destinate ad essere inghiottite dal nulla. Cerchi rossi al di là dei quali echeggia solo un sordo richiamo; decidere di restare dentro un confine oppure sarà la fine. Il confine mediocre al quale ci siamo ridotti perché non ci si riesce più a schiodare dall’angolo in cui l’uomo si è gettato: individui “social” assolutamente asociali, pronti a sbranarsi in un necessario gioco/lotta alla sopravvivenza. Gioco in cui viene coinvolto anche il pubblico, per una sera in un ruolo diverso da quello di semplice spettatore, incaricato di esprimere un giudizio con un semplice “touch”.
DeadBook, è un lavoro che ti pone ad un bivio, che si presenta come uno specchio, l’immagine di te stesso che ti mostra finisce per non piacerti e non sai se ridere sia giusto di fronte alle battute amare, ironiche, taglienti. Il mio pensiero si è adoperato per ricordare altri richiami somiglianti, in forma di spot (gli omini in bianco e nero che concentrati sul display, finiscono nel tombino), cinematografici (The Circle, USA – 2017); fra tutti, “Dieci piccoli indiani” di Agatha Christie….”e poi non resterà più nessuno…”, adatto per l’ansia crescente delle sparizioni inspiegabili, ma non per il profilo psicologico. Cercando frasi ad effetto, ne ho trovata una che da sola riesce a definire il messaggio di Francesco Maria Attardi e Francesca Ferro; è stata ascritta a Bill Gates: “Quando mi trovo alle conferenze sull’informazione tecnologica e la gente dice che la cosa più importante al mondo è fare in modo che le persone possano connettersi alla Rete, io rispondo: Mi state prendendo in giro? Siete mai stati nei Paesi poveri?”.
Francesco e Francesca hanno scritto un interessante “canovaccio” sulla decadenza morale ed etica dei tempi che sono, sul quale ritengo potrebbero essere imbastite altre esperienze di altri personaggi, man mano che lo spettacolo verrà rodato.
Dopo “Sogno di una notte a Bicocca“, si sono cimentati in questo lavoro interessante, nuovo e dal quale emerge cristallina la macabra verità che l’uomo e la bestia non hanno di mezzo neppure la virtù, sparita sotto milioni di finte esperienze, di finti innamoramenti, di falsa stima.
Anche per questo lavoro, si sono avvalsi di un congruo numero di attori, la maggior parte assai nota ed incontrati ancora una volta con piacere. Il piacere di apprezzarli in una difficile gestione dei dialoghi, in un arduo lavoro di memoria. I due attori/registi/autori hanno tracciato profili sociali e psicologici svariati senza censure e senza ipocrisia: la donna sposata con un’altra donna ed entrambe madri; la ragazza di colore arrivata a bordo di uno scafo; il razzista convinto di sapere da dove arrivino tutti gli scontenti sociali e chi ne sia responsabile; i furbetti pronti a mentire; la ragazza social a tutti i costi; l’uomo d’affari, la donna incinta, “l’handicappato”, la nonna, il nonno, due bambini. Già, due bambini, un maschio (Ruggero Rizzuti) e una femminuccia (Viola Lupoi), bravissimi ai quali va una menzione d’onore per essere riusciti nel loro ruolo con tanta innocente naturalezza, anello mancante in questa catena di sinistre e disperate personalità.
Primo lavoro in co-produzione che inaugura la stagione 2019/2020 del trentennale del Teatro della Città – Centro di Produzione Teatrale.
Testo e regia Francesco Maria Attardi e Francesca Ferro; aiuto regia, Marco Arena; scenografia, Alessia Zarcone
Produzione Teatro Mobile di Catania in collaborazione con Teatro della Città
Con: Gianmarco Arcadipane, Marco Arena, Giovanni Arezzo,Verdiana Barbagallo, Francesco Bernava, Giovanni Maugeri, Loredana Marino, Viola Lupoi, Mario Opinato, Pasquale Platania, Giovanni Pappalardo, Mariachiara Pappalardo, Damiano Randazzo, Ruggero Rizzuti, AwaSar, Nicoletta Seminara, Alice Sgroi
RennyZapato.
Repliche sino a domenica 27 al Piccolo Teatro della Città di Catania.
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