“Chi vive giace…

“Chi vive giace…

…e chi muore si dà pace”.

La storia del caso, del destino, la sorte a cui inevitabilmente siamo portati a credere quando non è possibile capacitarsi di un fatto assurdo accaduto, per il quale chi ci ha rimesso non era neppure colpevole di una qualche omissione. “Quella il casco, ce l’aveva…ma non ci fu versomischina…”. Il fatto accaduto, la disgrazia ha lasciato solitudini da una parte e generato spiccioli meccanismi di autodifesa, dall’altra. In entrambi i casi, il bisogno di sopravvivenza rispetto al dolore ed al rimorso, conduce verso il soprannaturale perché nell’interrogazione di esso si cerca la risposta. E’ giusto perdonare? Quanto durerà il dolore? Capitare per caso è una colpa? Come facevo ad evitare quello che è successo?                                                                                                             

Così come chi muore “si dà pace”, nell’astrazione del corpo, nella dispersione della materia, avviene anche la negazione delle colpe e l’ostinazione del dolore. Sono proprio coloro che non sono più, a dare le risposte; ma paradossalmente (come piace allo scrittore, autore de “Il nome del figlio”, pluripremiato film per il cinema) ciò avviene in una dimensione di mezzo in cui vengono a trovarsi vivi e dipartiti, dove questi ultimi hanno tutte le risposte del caso e le impongono ai primi, confusi e preoccupati.

Ciascuno ha perduto e ha da perdere qualcosa: Roberto Alajmo non esprime giudizi definitivi. Al contrario, mette tutto in discussione, palesando anche nuove responsabilità: quanto è concusso colui che si fa assorbire da un ragionamento che lo farà decidere per il perdono? Dunque, quanto è innocente colui che non era intenzionato a commettere un’azione scellerata che in verità si è poi determinata con la morte di una giovane sposa? “…mischina…”

 

L’identificazione per ruolo, già pone la vicenda dalla prospettiva degli affetti: la famiglia vista come un guscio, un filtro, un luogo dove vengono lavate le colpe ed alleviati i dolori. Non un tribunale alla ricerca delle vere responsabilità e delle sanzioni disciplinari, bensì, alla ricerca della soluzione.

Produzione del Teatro Biondo di Palermo, regia di Armando Pugliese; musiche originali di Nicola Piovani, scene di Andrea Taddei; costumi di Dora Argento, luci di Gaetano La Mela, aiuto regia, Valentina Enea. In scena: David Coco (il marito), Roberta Caronia (la moglie), Agostino Zumbo (il padre), Stefania Blandeburgo (la madre) e Claudio Zappalà (il figlio).

ph © rosellina garbo 2019. Al Teatro Vitaliano Brancati sino al 24 Novembre.

Armando Pugliese che di questo lavoro ha subito amato i ritmi del parlato, le cadenze musicali dei dialoghi, ha definito “Chi vive giace” una sinfonia siciliana. Perché, non solo ricorre prepotente la necessità di giustificare ogni cosa fatta o non fatta, detta o non detta, ma è palese l’affidamento all’occulto per sottrarsi alla confusione generata dal troppo pensare, all’inquietudine di trovarsi ad avere a ché fare con troppi particolari, numerosi dettagli. Si sa, i siciliani sono gente semplice, incline a ridurre i tempi di soluzione del problema, cercando la conclusione più superficiale.

 

Armando Pugliese (Regista)                                      Nicola Piovani (autore musiche originali)

E se i dialoghi sono musica, gli apostrofi musicali di Nicola Piovani, frà un cambio di scena ed un altro, sono riempitivi come parole narranti.

 

Valentina Enea (aiuto regia)                                     Roberto Alajmo (autore)

Protagonisti ed espressione ultima di cotanto studio ed impegno, sono cinque attori collocati sulla scena come le giuste pietre nel castone!

David Coco (L’uomo di vetro, La bella società, Malarazza, La fuitina sbagliata, Sposami, Il nome del figlio – scritto da Roberto D’Alajmo – Il Cacciatore…etc) che non riesce a non essere elegante qualsiasi ruolo rivesta, rin grado di assumere ogni caratteristica, avendo qui la bravura di rendere un vedovo avvilito dal dolore per la perdita della sua giovane moglie, frustrato dalla confusione che la gente gli mette in testa e ricondurlo in una dimensione umana nella ricerca della pace.

Roberta Caronia (Antigone con Giorgio Albertazzi, La strada verso Casa, Il Cacciatore, per citarne alcuni), è idonea nella trasfigurazione, pacata nell’espressione della “mischina” che del trapasso dà una definizione lontana dai manuali, sospirando con malinconia per il tempo “che non si capisce che non passa mai“.

Agostino Zumbo (Uomini sull’orlo di una crisi di nervi, Sogno di una notte a Bicocca, Il commissario Montalbano, Il ladro di Bambini Porte aperte, Nove anni a Tientsin) uno nessuno e centomila ne potrebbe fare e su quella tavolozza che è il suo viso, imbastire il personaggio del vedovo, padre solo e confuso alla prese con un figlio che non sa se punire o coprire, gli viene proprio benissimo!

Stefania Blandeburgo (Il giovane Montalbano, Don Matteo, Il Cacciatore, La fuitina sbagliata; insegnante di dizione…etc) recita tutto il tempo seduta su una sedia a rotelle con una fascia sugli occhi (così come la Caronia). Brillante e tristemente divertente è di una bravura spietata nello sciorinare le infinite parole del suo personaggio, moglie persuasiva e madre accomodante.

Claudio Zappalà (Scuola dei mestieri e dello spettacolo diretta da Emma Dante, ITACA, laurea in Scienze della Comunicazione, premio Cendic – Segesta nel 2015 come autore di “Aspettando Antigone”) assai versatile, ha una recitazione snodabile come il suo corpo che muove come quello di un acrobata che deve riuscire a stare in equilibrio sul gigantesco pasticcio in cui si è cacciato.

Scene allestite a metà fra il sogno che entra dalla finestra e la realtà scura ma ovattata, fatta di cose semplici che restano dentro casa; una tavola apparecchiata che, infine, visualizza in un unico quadro, le ragioni degli uni e degli altri. E la conclusione sta in quel titolo ribaltato…

 

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