Eccoci, smarriti alla ricerca di un “mi piace”, condizionati dalla curiosità morbosa di scorrere “bacheche altrui”, spiandone le vite senza curarci delle persone. Il trionfo dell’ozio e dell’inabilità che crea l’illusione del fare per quel frenetico pollice la cui opponibilità ci permette di scegliere faccine e condividere riflessioni. Paraocchi imposto come a quelle povere creature equine per obbligarli ad un compito che li sottrae dalle spensierate passeggiate nelle praterie. E noi restiamo chiusi nel metro quadrato di un qualsiasi luogo che non esiste.
Notifiche che aspettiamo con ansia affinché la considerazione fugace di qualcuno ci faccia sentire meno soli, come “Harry che aspetta le cartoline d’auguri dal postino” (da “Il Natale di Harry Acapulco” di Steven Berkoff). E più ci si sente soli e maggiore è il numero di social su cui cerchiamo compagnia, senza provare alcun sentimento come stima, rabbia, invidia, affetto. Guardiamo le foto dei viaggi degli altri senza avere il coraggio di partire. E se lo facciamo, passiamo tutto il tempo a guardare i luoghi dal dispaly del tablet e del cellulare, premurandoci di postare le foto, sbattendo contro un palo, una macchina parcheggiata, finendo dentro ad un tombino aperto di cui non ci siamo accorti, alla ricerca spasmodica della rete wifi.
Sgranando quel lato umano che ci distinguerebbe dalle cose, “tutti infilati in un cerchio che traccia la nostra prigionia” (“Deadbook” di Francesca Ferro e Francesco Maria Attardi). Ma cosa c’è veramente alla base di tutto questo micidiale meccanismo? la solitudine? la paura del confronto? Oppure la prevalenza della mediocrità che in qualsiasi epoca ha fatto capolino fra le parole “armiamoci e partite”? Diogene nel IV secolo A.C., sdegnava la società per gli sviluppi artificiali in cui questa operava: cercava provocatoriamente col lanternino l’uomo che nella riscoperta delle necessità essenziali avesse veramente valore. Cosa penserebbe oggi, il caro filosofo greco? Quale opinione avrebbe di noi se ci vedesse dipendenti appresso la droga virtuale dei “mi piace” che cerchiamo di curare adoperando la modalità aerea come disperati alla ricerca della disintossicazione? Cosa penseranno i posteri che leggeranno alcuni commenti elargiti in rete sul Colosseo, gli Uffizi e il Requiem di Mozart? Che siamo stati un popolo senza confini, i cui membri si aggiraravano al grido scimmiesco di “google, google!”, passando dall’ homo habilis/erectus a costituire una moltitudine di webeti...
“NEL NOME DEL DIO WEB” di e con Matthias Martelli che ne ha curato il testo e la regia con la collaborazione di Alessia Donadio.
Ideazioni luci e scene, Loris Spanu; musiche originali, Matteo Castellan; consulenza artistica, Domenico Lannutti; Artist Coach, Francesca Garrone; Costumi, Monica Di Pasqua; elementi scenografici, Claudia Martore; creazioni grafiche e video spettacolo, Imperfect; Management, Serena Guidelli; Produzione, FONDAZIONE TEATRO RAGAZZI E GIOVANI Onlus.
Una liturgia imperfetta imbastita dall’attore marchigiano per ironizzare sul cambiamento delle abitudini sociali e di relazione a causa dell’uso indiscriminato dei social ed i supporti utilizzati effetto “ciuccio del neonato“. La stupideria causata dall’avvento delle macchine è argomento da sempre trattato perché l’uomo che si allontana dal lavoro manuale, dai libri e dal lavoro di penna è destinato “al cannibalismo”, ovvero a nutrirsi del proprio cervello perdendo “la connessione” con esso.
Matthias Martelli come un meticoloso artigiano ha realizzato un manufatto pregiato, in cui ogni passaggio non è lasciato al caso: ha montato uno spettacolo-denuncia in uno stile buffo che canzona senza offendere. Matthias, giullare per nascita – unico a cui Dario Fò con orgoglio abbia lasciato “il suo Mistero Buffo” – conoscendo tutti i registri mimici, si esprime col corpo prima che con le parole che sa usare assai bene e con una inventiva straordinaria. Geniale ed affatto sfrontata la parte introduttiva in cui riproduce una messa officiata da “Don Aifon“, prete sui-generis che elabora una sorta di rito infarcito di neologismi come “webeti“, e di frasi come “dacci oggi il nostro selfie quotidiano“.
Un anticipatore coraggioso che ammette il passaggio dal Nokia 3310 allo smartphone per ragioni di lavoro, per adeguarsi, ma invita a non perdere la concentrazione, silenziandolo, disconnettendo il traffico dati quando non si sta lavorando e si è insieme ai propri cari. Perché nessun display è più luminoso degli occhi delle persone che abbiamo difronte.
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