SPACCHIUSI

ANTUDO lo spettacolo di Eliana Esposito al Canovaccio

Spacchiùsa Eliana Esposito, spacchiùsa Raffaella Esposito, spacchiùsu Giuseppe Aiello, spacchiùsu Paolo Toti! Era più o meno questo, in sintesi estrema, il sentimento – espresso nella parlata catanese – che animava l’estasiato pubblico del Teatro del Canovaccio, appena finita la rappresentazione. Al lettore malevolo e a quello continentale diremo che spacchiùsu nella nostra lingua è un misto e un “tuttoinsieme” degli aggettivi formidabile, superbo, astuto, intelligente e similari. E’ un super termine, un’idea-forza che più di dire, scolpisce, dipinge cose, situazioni e persone.

Eh sì. L’atto unico Antudo scritto e diretto da  Eliana e interpretato da Raffaella, Giuseppe e Paolo, nel suo piccolo è un capolavoro. “Piccolo” per amor di battuta, s’intende. E’ uno spettacolo che non ha un difetto. Cominciamo: regia esplosiva, coinvolgente ed essenziale. Interpretazione degli attori: tre dieci e lode! Superflua ogni altra aggettivazione. E’ giusta anche la scelta degli attori nella relazione e la corrispondenze tra le caratteristiche psicosomatiche dei personaggi e la complessione stessa degli attori. Spacchiùso il montaggio dei filmati che aggiungono un forte pathos alla narrazione (Alessandro Marinaro), insomma una perfezione tecnica davvero encomiabile.

Il testo. L’ha scritto Eliana ed ha tre pregi fondamentali: una forza drammaturgica dirompente (pari alle altre prove che nel tempo, ella ci ha fornito); una ricchezza lessicale tipica di una che ha studiato e un rigore storico da pubblicazione scientifica per l’assegnazione della cattedra di storia contemporanea. Un godimento intellettuale che non vi dico!

Il soggetto. Originale quanto al contenuto, si rifà a film e piecè teatrali che fin dagli anni 60 si sono occupati dell’oppressione dell’uomo sull’uomo attraverso l’ausilio della Tecnica. L’esasperazione delle performance tecniche che svuotano il pensiero e la volontà degli esseri umani è un soggetto che ha avuto esempi illustri. Lo stesso Woody Allen ne accenna quando descrive il camaleontismo di Leonard Zelig che è in grado di trasformarsi in qualsiasi cosa, nel film omonimo. Originalissimo è invece il contesto storico sociale in cui l’autrice inserisce il collaudato meccanismo d’oppressione: la Sicilia e il popolo siciliano che così diverso e così uguale a tutti gli altri.

Un popolo, il siciliano, oppresso dalla bestialità d’un altro popolo, quello Italiano. Si sottintende che le parti possono essere invertite perché la bestialità è corredo genetico di ogni essere umano così come lo è la mansuetudine, ed allora è “l’occasione che fa l’uomo ladro”.

Dal pessimismo degli sconfitti si passa, in un crescendo d’emozioni, all’ottimismo onirico della volontà fino al beneaugurante cedimento al sogno; il sogno di una terra libera retta da uomini giusti e liberi dove “buongiorno vuol dire veramente buongiorno”, una specie di Miracolo a Catania, in Sicilia o appressupotta. Un sogno vero dove i martiri sono glorificati, il bello e il giusto trionfano.

E siccome il narrar bene grandi cose è un farle in gran parte, lo stesso spettatore – entrato in platea stanco e depresso – si carica d’entusiasmo per quel sogno di cui s’è sentito pienamente protagonista, con la gioia d’essere anch’egli passato di sconfitta in sconfitta verso la vittoria finale.

Sennonché … a rovinare il mio di sogno, spunta fuori quella gran cosa fitusa di Biff. Biff, il figlio di Willy Loman, il Commesso Viaggiatore di Arthur Miller: appostato appena fuori l’ingresso del Canovaccio, mi batte con la mano sulla spalla e mi fa: “lasciala stare quella, Eliana … è una che sbaglia i sogni”. Perdinirindina Biff! … stavo così bene.

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