Silvia Romano e la tracotanza di chi non sa

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Silvia Romano e la tracotanza di chi non sa

La stupidità si sta impossessando di gran parte degli italiani, almeno a dar retta al materiale che compare sui social in questi giorni. Pare che siano diventati tutti professori di psicodiagnostica. Hanno radiografato, scannerizzato, messa sotto sopra, di lato e chi più ne ha più ne metta la povera Silvia Romano e ci sono in giro decine di migliaia di sentenze, diagnosi e giudizi. Si va dalla più banale: è sicuramente affetta dalla “Sindrome di Stoccolma” alla più volgare: è proprio una … “città dell’Asia Minore sotto le cui mura si svolse il mitico duello fra Ettore ed Achille  e che comincia con la lettera T” Insomma una sorta di Cafarnao psichiatrica spesso inconsapevole, ridicola e stupefacente.

Personalmente, da modesto cercatore delle fonti che danno vita alla narrazione degli eventi, ho puntato l’attenzione sulle uniche cose non mistificabili di questa vicenda: le parole di Silvia ai magistrati.

“Mi hanno detto che non mi avrebbero fatto del male, che mi avrebbero trattata bene. Ho chiesto di avere un quaderno, sapevo che mi avrebbe aiutata. Stavo sempre in una stanza da sola, dormivo per terra su alcuni teli. Non mi hanno picchiata e non ho mai subito violenza. Uno di loro, solo uno, parlava un po’ di inglese. Gli ho chiesto dei libri e poi ho chiesto di avere anche il Corano.”

Dunque i soli unici compagni di Silvia durante il sequestro sono stati pochi libri, il suo diario e il Corano. Noi invece abbiamo appena trascorso solo due mesi di quarantena e isolamento. Quali sono stati i nostri diari e i nostri Corano? La televisione? La cucina? I libri? Il cellulare? Netflix?

Quanto ci siamo identificati con le cose che davano un senso alle nostre giornate?

Per due mesi le bacheche Facebook di tutta Italia sono state intasate e subissate dalla presenza dei nostri oggetti identificatori: serie tv, panificazioni e allenamenti sportivi fatti in casa; ma ora, dopo due mesi di ozio forzato, c’è chi alza il ditino contro chi ha passato 18 mesi in “quarantena forzata” con un paio di libri e il suo diario.

Siamo di fronte al ferale trionfo della tracotanza, quella che i greci chiamavano Hybris; in una delle sua articolazioni più subdole, il tentativo di giudicare ciecamente fatti che non sono conosciuti

La mitologia greca è ricca di atti di Hybris: Prometeo, Sisifo, Tantalo, Aracne e tanti altri. Allo stesso modo la mitologia cristiana attraverso il racconto su Lucifero, per esempio.

Dante Alighieri definiva la Hybris come il peccato dell’uomo che tenta di arrivare a comprendere con la ragione il mistero. In questo nostro caso è il tentativo tracotante di fare una diagnosi su un fatto sconosciuto.

Nella mitologia greca la Hybris era la personificazione della violenza e della dismisura. Ecco perché possiamo vedere nelle parole e nei commenti delle persone che accusano Silvia Romano proprio violenza e dismisura di natura mitologica e irrazionale. Fare diagnosi sommarie non è un passatempo, tanto meno un giochetto da psicologi improvvisati. È un vero e proprio atto di Hybris.

Non conosciamo il vissuto di Silvia Romano, non siamo i suoi confessori, i suoi psicologi e nemmeno i suoi giudici. Non possiamo sapere ciò che le è accaduto. Dovremmo astenerci dal giudicare, sempre. Sforzandoci semplicemente di ascoltare per comprendere le ragioni di chi la pensa diversamente da noi e tacere quando non si sa.

Tacere. Perché di ciò di cui non si può parlare si deve tacere.

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