Nove sono i mesi per formare una vita. I suoi multipli, le tappe intermedie di una donna, nel corso delle quali accadono gli eventi narrati…
In una delle serate tipiche dell’ estate siciliana, alla vigilia di San Lorenzo, al Lido dei Ciclopi è stato rappresentato “Nove”, scritto da Egle Doria e Nicola Alberto Orofino, – interpretato dalla prima e diretto dal secondo -, che definisco “una storia d’amore che chiede di essere ascoltata”.
I pregiudizi sono il vincolo più dannoso allo sviluppo dell’intelligenza: e non parlo di quelli spiccioli che circolano in ambienti avvezzi al pettegolezzo ma mi riferisco a quelli che un’autorità, una persona deputata a rappresentare la società, un popolo, un elettorato variegato esprime circoscrivendo il proprio giudizio alle variabili sessuali, di razza, religiose, di stato.
Ci fu un tempo immediatamente prossimo al referendum che aveva abrogato la legge che vietava il divorzio (12 maggio 1974) in cui le donne (soprattutto) che erano ricorse al neonato istituto per sciogliere il proprio vincolo matrimoniale venivano considerate “pericolose” da e per quelle sposate in quanto potenziali “rapitrici” di altrui mariti. E queste donne venivano isolate, allontanate dagli amici e spesso anche dalle famiglie. Continua a persistere il tempo in cui ciò che non è allineato all’assioma venga tacciato di illegittimità, di incoerenza, piuttosto per la pigrizia di non appurare che per ragioni legate al buon costume sociale ed ideologico. Schopenhauer sosteneva che spesso i limiti del proprio pensiero si è portati a riconoscerli come i confini del mondo stesso.
Il pregiudizio storicamente ha effetto conservativo, concorrendo solo di rado al mantenimento di una occorrenza necessaria ed esercita sullo sviluppo del pensiero un rallentatore culturale e sociale. Le infinite pieghe di un argomento rimangono cucite a filo doppio e protette dall’incursione dei commenti più rivoluzionari. Ciò che non si deve contraddire rimane fossilizzato e non spiegato da un “così è”, “prima noi, poi gli altri”, “è una cosa contro-natura”, “non sta bene”, “cosa può pensare la gente?”. Gli indirizzi obbligati verso comportamenti, letture, abiti, idee hanno generato eccidi copiosi e sanguinari, costruito muri e prigioni intorno a menti brillanti: Alan Turing, il matematico inglese responsabile della invenzione e costruzione della prima macchina che durante la Seconda Guerra mondiale aiutò gli inglesi a decriptare i messaggi codificati dei tedeschi, (dunque padre dell’informatica e dell’intelligenza artificiale insieme), finì suicida a seguito dei trattamenti cui era stato obbligato a sottoporsi (castrazione chimica) per aver incautamente ammesso di preferire gli uomini e di non trovare nulla di offensivo nelle proprie azioni.
A rischio di apparire inadeguata, azzarderei che se fossero giunti sino a noi i discorsi di Gesù senza subire il passaparola e l’interpretazione e le traduzioni, forse saremmo venuti a conoscenza di valori di tolleranza e comprensione che sfuggono ancora. Il noto episodio del servo del centurione guarito da Gesù rende evidente l’attenzione sulla fede che prescinde dall’indagine sul genere di relazione intercorrente fra centurione e giovane aiutante.
Egle Doria è una di quelle attrici il cui modo di recitare, professionale e consolidato da anni di esperienza e di formazione, non rischia di scivolare nel passeggero calo di temperamento; quindi il commento a margine è assolutamente estraneo alle bocciature; che legga Ariosto, reciti nel personaggio della Morte in “Mein Kampt”, della Santuzza in “ETerNA”, Fedra nell’ “Ippolito”, l’assorbimento nel ruolo è sempre di alto livello. In Nove, in realtà, interpreta se stessa, racconta le persone che nella sua vita hanno avuto un ruolo determinante: la mamma Marina, volata via troppo presto, la Nonna Tina vissuta molti anni oltre la propria figlia, il nonno Cocò (campione del calcio Catania degli anni ’30 e grande amico di Angelo Musco) di quindici anni più grande della consorte che amava il teatro e le feste; le zie di Palermo, tutte femmine e signorine, specializzate nel ricamo a punto croce….“dal basso verso l’alto, da destra a sinistra…”.
Scenografia mobile organizzata con parallelepipedi foderati con la stessa stoffa dell’abito materno dell’attrice; luci cangianti che si proiettano sull’interprete rimbalzando sulla struttura ma perdendosi sullo sfondo delle luci della costa: Vincenzo La Mendola non ricorre ad espedienti di scena, bensì possiede il dono della sintesi eloquente. Nicola Alberto Orofino, avvalendosi di una squadra composta di elementi fidati e preparati, riesce anche questa volta a considerare, stravolgendoli, gli obbligatori parametri di regia e la misura nel trasferimento di un messaggio tanto articolato quanto delicato.
Rispetto all’edizione dello scorso anno, la narrazione ha subito una modifica destinando gran parte del racconto al vissuto più recente dell’attrice, “perché molte cose ancora non si sanno, dunque vanno dette, e tantissime debbono essere ancora fatte”. Personalmente posso relazionarle entrambe e ammettere a tal proposito che c’è stato, da parte di regista ed attrice, un lavoro di maggiore documentazione che Egle Doria riesce a corrispondere facendo innamorare il pubblico anche di questa edizione. Il testo per nulla semplice, perché articolato in diversi accenti di recitazione, la obbliga ad una performance faticosa e dinamica mettendo a dura prova il corpo e la voce.
Sviluppata nel senso classico in cui s’intende il Teatro di Narrazione, la storia è quella di una famiglia, di un’epoca d’oro di successi e fama, di un’infanzia raffinata e spensierata, di addii acerbi e crudeli, di vuoti e sgomento; di una relazione conclusasi con una separazione, di un’altra relazione diventata un matrimonio e consolidata dalla nascita di un figlio. Nelle parole gioia, dolore, relazione, nascita di un figlio, unione si individua una storia di vita, un elenco di occorrenze che sono capitate e capitano a tante persone: si lascia una persona per cercare altrove se stesso, e si va via; si incontra una persona, ci si innamora, si combinano progetti e ci si assume la responsabilità di camminare insieme nella vita. Bello, no? Parliamo di due persone unite civilmente, che si sono scelte, che si amano; di due genitori che si prendono cura di una bambina cercando di darle gli strumenti più adatti per farla crescere sana, sincera e forte.
Fino a quando quello che ho scritto si affranca nell’ambito dell’ Amore, della Responsabilità, dell’ Impegno, della Legittimità, del Consenso?
Fintanto si va in teatro e si capisce che ad essere andato via senza dare molte spiegazioni è stato un uomo? che ad essere stata incontrata è stata un’altra donna? ad essere genitori attenti e responsabili sono due donne? ad essersi unite civilmente per dare forma di vincolo a quello che era già e comunque un rapporto serio sono le stesse due donne? Rispetto alla sostanza cosa è cambiato? Non è forse il cuore a battere, a patire, gioire? Non sono l’intelligenza e la determinazione a far scegliere una strada e percorrerla sino in fondo? E’ difficile comprendere nel quadro di questa analisi, le ragioni degli schieramenti rigidi e senza risposta.
La medesima severità, l’assenza di argomentazioni che alcuni amministratori “obiettori”, forse non ancora al corrente della percorribilità di certe interpretazioni latu sensu, hanno espresso a proposito della richiesta avanzata dalla compagna, (adesso moglie della madre naturale della bambina di cui si prende cura dal momento del concepimento), della trascrizione sull’atto di nascita, dunque del riconoscimento della parola “genitore” a tutto tondo. La legge italiana ha in materia una miopia conclamata che cerca di raddrizzare considerando il genitore che non ha portato in pancia il bambino, “genitore sociale”, con cui si definisce chiunque, pur partecipando attivamente alla vita, alla formazione e all’educazione del bambino, sia “estraneo al concepimento”. Che se poi analizziamo i moderni modelli familiari, ritroviamo quello che un tempo era un gruppo assembrato spontaneamente dalla consuetudine di vivere vicini in contesti urbani semplificati, sistemi rurali; ambiti nei quali erano presenti nonni, ma anche zii, sorelle, fratelli, cugini più grandi che si prendevano cura dei figli nati nelle famiglie. “Genitori sociali” dunque, un tempo, erano proprio in tanti, ma davvero. Non si può assimilare a questo genere il genitore che è l’altro di una coppia, – che sia anche eterosessuale, non fa differenza – perché un genitore che cresce il figlio di primo letto non può godere della trascrizione dello status se non dopo averlo legalmente adottato. Il fatto narrato (che costituisce episodio recente della vita dell’attrice e della sua famiglia) è la negazione del riconoscimento formale del ruolo da parte di tutti i comuni interpellati, Sicilia e dintorni: solo il Sindaco del comune di Crema, a gennaio scorso, risponde favorevolmente alla richiesta che ritiene essere legittima e annota sull’atto di nascita di Marina il nome della seconda mamma come “genitore”. Il comune di Catania, infine ha ricevuto notifica del provvedimento.
Per fortuna, oggi c’è di fatto meno ipocrisia di quanta i media ne facciano passare; ma ancora i sistemi politicamente organizzati costituiscono lo zoccolo duro di certa caparbia ostinazione… allora, usciamo di casa per frequentare luoghi di cultura, chè i pensieri che ci raffiguriamo nei limiti della nostra mente possono essere arricchiti dalla semplice vastità della verità che certo teatro serio riesce sapientemente ad allestire.
Nove, scritto da Egle Doria e Nicola Alberto Orofino, con Egle Doria ; regia di Nicola Alberto Orofino, assistente alla regia Gabriella Caltabiano; scene e costumi Vincenzo la Mendola, assistente scenografia Enzo Pace; foto Gianluigi Primaverile. Comunicazione Stefania Bonanno; grafica Maria Grazia Marano; organizzazione Maria Grazia Pitronaci; amministrazione Federica Buscemi; produzione Associazione Culturale Madè
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