La Storia di una Capinera di Verga nella versione di Valentina Ferrante e Micaela De Grandi
Confesso che sono andato a vedere, con in testa qua e là una certa dose di pregiudizi, nella splendida cornice del Palazzo Platamone a Catania, sfidando le sonore minacce di Giove Pluvio, la Storia di una capinera di Giovanni Verga riscritta per le tavole del palcoscenico da Rosario Minardi e diretta da Valentina Ferrante e Micaela De Grandi.
Pregiudizi dettati dall’affetto che ho per Maria (la capinera) e l’immagine che di essa ho interiorizzato da quando, sedicenne, me ne innamorai leggendo il romanzo; dal fatto che seguo, da qualche anno, le vicende professionali di Valentina Ferrante, una straripante e volitiva attrice alle prese con una “vinta”, con una adolescente rassegnata ad un destino di morte psichica ancor prima che fisica; dalla complessità degli aspetti ambientali che compongono il romanzo e per i costumi di un’epoca oramai lontana anni luce dalla nostra.
Per quest’ultima difficoltà la brillante regia ha attinto a piene mani dalla weltanschun teatrale di Jerzy Grotowsky secondo la quale al centro del manufatto teatrale c’è l’attore e la sua capacità di entrare in empatia col testo e con lo spettatore, con costumi e scenografia appena accennati e dal forte valore simbolico.
Devo dire che l’operazione è riuscita bene, i cinque attori e le loro “povere cose” hanno riempito costantemente il palcoscenico con scelte registiche quasi mai banali e qualche punta di eccellenza; in questo contesto efficace è apparso, e sapiente, l’uso dei suoni con gli strumenti presenti in palcoscenico.
Una gradevole sorpresa è stato osservare la performance di Giovanna Criscuolo, attrice brillante che spesso in passato ha indugiato in ruoli comici, fino al limite della noia (colpa degli sceneggiatori evidentemente) e che ha mostrato di essere perfettamente a suo agio in un ruolo drammatico come quello di Matilde (la matrigna di Maria) e ancor più in quella di Agata (la raffigurazione presente e viva dell’epilogo mortale della scelta monacale di Maria). Due ruoli davvero difficili perché, si sa, rappresentare la cattiveria e la follia non è mai facile, eppure la Criscuolo ha reso ambedue i personaggi in maniera convincente. Nel ruolo di Agata/Maria poi, in alcuni tratti, ci ha fatto tornare alla mente l’ineguagliabile Vanessa Redgrave di zeffirelliana memoria. Davvero brava.
Impeccabile nei ruoli della Sig.ra Valentini, di Marianna (l’amica del cuore di Maria) e di suor Filomena è stata Micaela De Grandi. Stilisticamente “ordinaria”, che nel mio dizionario personale di avvicina tanto al “dover essere” e alla perfezione; nessuna sbavatura, nessun errore di dizione. Un piacere vederla recitare.
I maschietti, Federico Fiorenza nel ruolo del “carso confuso” Nino (l’amante vigliacchetto di Maria) e anche di Giuseppe il vile padre di Maria e Massimiliano Geraci in quello di Giovanni Verga, hanno accompagnato con precisa professionalità le donne protagoniste dello spettacolo; perché diciamolo francamente: Storia di una capinera è un dramma – ma che dico – una tragedia tutta femminile.
E non è tragedia perché Maria muore nel fisico e nello spirito, è una tragedia perché rappresenta tutte le possibili morti simboliche di cui una donna può essere vittima; su ciò evito di dilungarmi oltre perché confido che le donne, che mi stanno leggendo, sapranno farne un elenco più lungo e dettagliato di quanto possa fare questo modesto osservatore.
Infine Maria, la capinera; quella che tutti amiamo e che ci smuove le viscere, che ci mette la smania e il tarlo in capo di immaginare comunque per lei una salvezza, una via d’uscita. Ad ogni contumelia ch’ella riceve sapremmo ben noi come contrbattere, come difenderla – anche con le botte! -, ma la storia va avanti senza di noi e la rassegnazione di lei, che non può essere nostra, ci carica di dolore, di rabbia – per forza di cose – inespressi.
Fino all’epilogo finale: Vae Victis, guai ai vinti. Non le sarà di aiuto l’ultima Dea, la Speranza muore con Maria, tra le mura del convento. Tramonta il sole e non s’affaccerà mai più per lei.
Ora, ditemi voi, com’è possibile che un personaggio così arrendevole, così debole psichicamente, macilento nel fisico, ossequioso delle regole, incapace di opporsi al beffardo accanimento della madre e alle crudeli sopraffazioni dell’intera società in cui vive, rinunciatario fino all’annullamento di se stesso, possa essere interpretato da un’attrice sanguigna, ribelle, sovvertitrice di ogni canone etico ed estetico, innovatrice sul piano artistico, una che ama recitare il teatro proibito (Banned Theatre) e che si dipinge sovente, e con soddisfazione, una indomita combattente per le proprie idee, come Valentina Ferrante?
Eppure è stato così. Valentina è stata convincente, arrendevole, debole, rinunciataria, addolorata d’un dolore cupo, sordo e senza speranza proprio come il personaggio richiede, e ciò è avvenuto perché la professionalità non è acqua e chi ce l’ha la tira fuori quando serve.
Fuor di celia, nessuna sorpresa. Una vera professionista come lei può interpretare ogni ruolo non tanto per l’indubbia competenza e per l’oramai lunga esperienza, quanto per il perenne, contagioso entusiasmo che la pervade, quel Daimon che le grida dentro e le conferisce un genio personale ed artistico del tutto particolare.
Genio che ella ha profuso, assieme a Micaela De Grandi, anche nella regia la quale ha mirato a non appesantire tanto il testo quanto le atmosfere e l’uso degli spazi scenici, sicché la pièce è risultata agile, gradevole all’orecchio e alla vista.
Veniamo ora alle dolenti note … scherzo, scherzo! Fino a un certo punto.
Della capinera verghiana in genere coloro che la rappresentano e coloro che ne godono la lettura o l’ascolto privilegiano e tengono a mente la numerosa serie di bocconi amari che Maria ingoia per l’intero corso del romanzo.
Dell’amore di Maria per Nino, della consistenza di questo amore, della sua qualità resta poco anche al più attento degli ascoltatori e questo perché nella esperienza della vita comune, alla quasi totalità degli spettatori, non sono presenti le inaudite violenze che Maria ha subite, mentre tutti hanno fatto esperienza dell’amore o, almeno, di un suo surrogato.
Nel nostro caso l’inconsueto è la violenza (per fortuna) non l’amore, e l’attenzione nel mondo animale è sempre catturata dall’insolito.
Assueta Vilescunt ci insegnavano i nostri padri latini. Le cose solite diventano vili.
L’attore, il regista che volesse rendere ricordevoli le cose solite ha poche frecce al suo arco: l’espressione del volto e del corpo, l’intensità della voce e il tempo della recitazione accompagnato dall’azione registica.
Nell’ultima parte della “capinera” di Valentina e Micaela, un uso più “furbo” di queste frecce, chissà, avrebbe reso un ulteriore servizio allo spettatore innamorato; figuriamoci poi a quello che quelle pagine le conosce a memoria e le porta nel cuore.
“Nino (…) non si può dimenticare l’amore che ci è stato offerto, tu resterai in eterno nel mio cuore. Finché vivrò tu vivrai dentro di me”. Parole di una semplicità disarmante che solo l’abilità interpretativa dell’attrice può trasformare in un manifesto eloquente dell’amore non corrisposto.
E’ meglio che mi congedo adesso, va!, perché ” qui, se non fuggo, abbraccio un caporale / colla su’ brava mazza di nocciuolo / duro e piantato lì come un piolo”.
Foto di Francesco Fiorello e Carla Licari
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