di Antonio Aiello
Lui si chiama Alfio Privitera, è gravinese doc, cinquantaquattro anni compiuti, ed è anche ideatore di diversi festival cinematografici oltre che curatore della sceneggiatura di vari cortometraggi.
Dopo l’esordio, sedici anni fa, con l’anticommedia “Lo spaventapasseri” e la pièce “Antonio, lume di Dio” dedicata a Sant’Antonio di Padova, ha pubblicato da pochissimo il romanzo, edito dalla casa editrice “Dialoghi”, “Le campane di San Carusaru”.
Un romanzo che rappresenta un viaggio nella memoria, nel primitivo, come già il titolo sembra suggerire: le campane che, come da topos letterario, alludono alla dimensione paesana dell’ambientazione e San Carusaru che è il santo immaginario che deve proteggere i piu’ piccoli dalle ingenuità e monellerie che la loro età può inevitabilmente comportare.
L’opera, strutturata in quattordici capitoli, si snoda per poco piu’ di cento pagine, fluide e scorrevoli, col lieto fine conclusivo che, peraltro, non anticipiamo.
A parlarci dell’opera è lo stesso autore da noi contattato telefonicamente, e non intervistato personalmente in presenza, a causa dell’emergenza Covid: “Si tratta di un’idea – dice Privitera –
realizzata durante il primo lockdown ma che era presente già nell’aria in quanto avevo già diversi soggetti cui poter lavorare in prospettiva di un romanzo”.
Reale è il contesto, la cornice che fa da sfondo a questa arcana, misteriosa, ancestrale, ma per ciò stesso affascinante, Sicilia di un tempo che forse solo il miglior Giuseppe Tornatore ha saputo rappresentare in taluni spaccati dei suoi memorabili film (pensiamo per un istante a “Nuovo cinema Paradiso”), fittizi sono invece i personaggi dietro ai quali non si celano persone reali ma frutto della fantasia dell’autore: non possiamo, perciò, parlare di un romanzo storico ma di una fiaba moderna in cui aura mitica e cruda realtà vengono a intrecciarsi mirabilmente così da farci calare in un tempo lontano che l’autore fa gradualmente affiorare nello scorrere delle pagine.
Si tratta di quadretti, idilli (nel senso ellenistico-alessandrino del termine) che hanno origine da un’antica filastrocca cui si aggiunge un accumulo di diverse situazioni.
Ci dice ancora l’Autore: “Punto di partenza sono le antiche filastrocche popolari e anonime, alcune delle quali raccontatemi da mia nonna in anni andati, come quella per cui da Cicirittu si giunge al lieto fine della storia”.
Stilisticamente in questo canovaccio è presente un evidente sperimentalismo linguistico grazie a cui affiorano gli intercalari del parlato quotidiano popolare della gente, riportato proprio nel nudo e crudo dialetto siciliano -con un glossario finale nel quale gli stessi sono alfabeticamente spiegati- e non “adattato” al siciliano come, invece, ad esempio, nei romanzi di Camilleri.
Chiediamo all’Autore quali siano i suoi modelli letterari e lui ci dice: “E’ sicuramente verghiano lo sfondo, il paesaggio che funge da cornice allo svolgimento dei fatti, ma ho cercato altresì di rifarmi al “riso amaro” pirandelliano per l’introspezione psicologica ed analisi dei personaggi, non disgiunto da un’ironia ed un humour presenti anche in Brancati e che vengono applicate ai personaggi passati diacronicamente in rassegna in questa commedia umana, nonchè, fra i non siciliani, in Mastronardi”.
Gli chiediamo, infine, se abbia in mente di realizzare a breve altri romanzi e lui ci dice: “Sì, ma non in lingua siciliana: per il momento almeno vorrei sperimentare altro…”.
Lascia un commento
You must be logged in to post a comment.