Potremmo sintetizzare questa nostra recensione semplicemente dicendo che l’ultima produzione letteraria, la raccolta di novelle (si sarebbe detto un tempo) “Giano Bifronte” di Licia Aresco Sciuto, pubblicato per i tipi della Giuseppe Maimone Editore, si compone di una dotta prefazione di Sergio Sciacca, di una presentazione, di nove racconti e una raccolta di ricette di cucina “dicotomica” a conclusione di tutto; una lettura che è godibile, divertente a tratti, serissima altrove e impegnativa, ove campeggia in sottofondo, ora flebile ora possente, il grido “Libertà”!, tuttavia questo libro contiene una “novazione” letteraria che merita d’essere conosciuta e approfondita.
Ora, a parte la cucina “dicotomica” il cui significato vi invito a scoprire personalmente, il libro – fatto come tutti di carta e di parole impresse su di essa – è un gioco, un gioco sofisticato che implica una incursione immateriale nell’inconscio di ogni lettore; ogni racconto è una sfida al lettore in una sorta di Role Playing Game, un gioco dei ruoli fra l’autrice e i suoi elettori. Per vivere appieno il libro e per goderne gli effetti di ristoro psichico occorre fare una breve premessa. Occorre chiarire in ambito sociologico la nozione di gruppo. Un gruppo è, in estrema sintesi, un l’insieme di più persone che interagiscono e variano da una dimensione minima di almeno due e una dimensione massima di settemiliardiottocentotrentaduemilioninovecetrentaduemilacentoventuno che è il dato aggiornato della popolazione mondiale alla mezzanotte di ieri. Ogni gruppo ha un capo, un leader (per dirla alla moda). Nel gruppo composto dallo scrittore e i suoi lettori, il capo è lo scrittore. Ad esso i lettori obbediscono di buon grado semplicemente avendolo scelto e leggendo il libro. Si stabilisce, naturalmente, un rapporto di potere che è un potere di posizione direi topografica, immodificabile se non con il rifiuto del lettore di leggere il libro; ma se non lo legge che l’ha comprato a fa’?
La rivoluzione areschiana, e con esso il pregio di più grosso impatto del libro è il fatto che l’autrice restituisce, concede un po’ del suo Potere ai lettori, una fetta inestimabile come si dirà dopo, del tutto inedita nella forma proposta. Ognuna delle 9 novelle ha due finali, quello A e quello B, diciotto racconti in effetti. Finali diversi anche se non sempre opposti e il lettore può scegliere quello che più gli aggrada. Una specie di democrazia della narrazione, una rivoluzione dei ruoli, un piacere in più per la lettura. Immaginate voi per un momento se il Manzoni ci avesse consentito di modificare il finale dei Promessi Sposi o dell’Adelchi! Già immagino i cento modi in cui avremmo insegnato l’educazione a quell’antipatico di Don Rodrigo e sicuramente la piccola Cecilia che usciva morta dall’uscio di casa se ne sarebbe tornata viva a casa saltellando, con la mamma e i fratelli. Come vedete un potere enorme per il lettore, sia pure limitato alle opzioni A e B (quel Giano Bifronte che guarda allo stesso modo e allo stesso tempo il mondo infero e quello celeste, il passato e il futuro) decise dall’autrice. Un potere che, si badi bene, non è una mera liberalità perché l’esercizio del potere implica la responsabilità e la responsabilità implica l’uso della facoltà che ci ha resi Homo Sapiens, che ci ha distaccato definitivamente dal resto degli animali; quella facoltà che una grande filosofa come Hannah Arendt descrisse con chiarezza insuperata nel capolavoro che ha suggellato la sua Weltanschauung : “La banalità del male”. E’ la capacità di pensare o più brevemente il pensiero questa facoltà che ci rende umani; cioè ancora “quella conversazione, quel silenzioso dialogo che c’è tra me e me stesso” in cui si sostanzia l’autentica libertà dell’essere umano. L’escamotage stilistico adoperato dall’autrice è opera meritoria assai perché nel restituire quella parte di libertà/potere che è suo personale al lettore, lo induce all’esercizio dell’uso del pensiero, ad auto interrogarsi, lo fortifica, lo educa, lo abitua all’epifania del pensiero nella sua valenza etica e salvifica il cui scopo non è, come comunemente si pensa, il conoscere, ma l’agire al fine di discernere il bene dal male. Ritorna come vedete il Giano Bifronte che spesso non è coesistenza di opposti ma scelta lacerante. Dunque in questo libro c’è molto di più dell’obbedienza al Lustprinzip di freudiana memoria insito nella scrittura e nella lettura; c’è un Opus maieutico encomiabile e sorprendente che agisce in maniera sottile, lieve; merito anche di uno stile di scrittura sobrio, leggero che non cede mai alla retorica o alle ridondanza anche quando legittimamente il contesto lo consente. I temi dei racconti toccano gran parte dei vizi e delle virtù dell’agire umano e testimoniano di una sensibilità personale che è lo specchio della vita di Licia Aresco Sciuto che, dalla lontana, incantevole, quieta, mitteleuropea Trieste s’è fatta catanesissima per amore e per scelta; bramosa e inquieta come Catania nella ricerca della conoscenza e della scoperta delle meraviglie della natura, della dimensione estetica dell’etica e del pensiero umano. La stessa passione per la scrittura è frutto dell’essenza del dio che ella ha dentro di sé, altrimenti detto entusiasmo, dal greco antico enthusiasmós, composto dalla radice en (in) e theós (dio). Leggendo il libro traspare evidente l’entusiasmo (quel dio che parla in sua vece) che dà il crisma del sacro alla vita umana, che pervade l’intera vita dell’autrice e che ella ci trasferisce a volte in maniera palese, a volte in maniera subliminale dalle pagine di questo pregevole, sorprendente manufatto letterario.
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