Abbiamo assistito l’altra sera in quel di Camporotondo Etneo ad uno spettacolo davvero molto interessante e molto ben recitato. Si tratta de “L’alba del terzo millennio” di Pietro Da Silva, riscritto e interpretato da (in ordine rigorosamente alfabetico) Cosimo Coltraro ed Emanuele Puglia, per la regia di Federico Magnano di San Lio.
Dello spettacolo credo si possa dire tutto il bene possibile e degli attori altrettanto.
Si rappresenta il dramma di due uomini che trovatisi a interpretare in una processione pasquale i ladroni crocifissi insieme a Nostro Signore, per una di quelle migliaia di circostanze assurde che a tutti è dato di sperimentare durante la propria vita, restano inchiodati per 24 ore alla loro croce senza potere scendere.
A chi non è capitato di subire le ingiurie dell’avversa fortuna che lo condanna senza scampo a patire, senza speranza, per un tempo che – al di là della quantificazione – è sempre infinito!
Dicevamo un dramma che finisce in tragedia, come avviene nella vita fuori dalle tavole del palcoscenico milioni, miliardi di volte al giorno. Una cosa tanto banale, quotidiana direi, quanto straziante e apparentemente insolita.
Due uomini opposti nel carattere e nei drammi di cui la loro vita è intrisa, sottoposti allo stesso tormento fisico che trovano la loro “resurrezione” nella conversazione, nello scambio energetico della parola che affanna e che consola.
Attraverso la “parola” scoprono infine d’essere fratelli accomunati da un unico destino “cinico e baro” che, beffardo, fa intravvedere loro una luce come un lampo, un’effimera speranza che non acquieta l’animo dello spettatore, nonostante il finale ostinatamente positivo e zuccheroso.
Direte a questo punto: uno spettacolo serio e triste. Macché!, cari lettori. Si ride dalla prima all’ultima battuta (quasi).
Puglia e Coltraro, da bravi artisti interpretano il dramma cogliendo i suoi paradossi e le incredibili situazioni dove l’ironico e il divertente contaminano la vita e la rendono tutto sommato vivibile e, perché no, a tratti gradevole.
Finita la rappresentazione, con addosso ancora i cenci indossati per la scena e alle spalle i tanti spettatori in attesa di congratularsi, abbiamo improvvisato e “scippato” una breve intervista.
Emanuele, questo testo sembra scritto apposta per voi, ma in effetti non lo è …
Vero. Questo testo lo scoprimmo tanti anni fa, intuendone sin da subito le potenzialità per quelle che sono le nostre caratteristiche attoriali (come singoli e come coppia artistica) ma, per un paio di anni lo accantonammo finché, nel 2012 quando ci venne richiesto uno spettacolo da inserire nella rassegna “XXI inScena”, fu l’occasione giusta per allestirlo.
Pur avendo già lavorato insieme in tanti spettacoli, era la prima volta che affrontavamo un lavoro “a due” (“noi” due) e, forse, nessuno si aspettava la fortuna che avrebbe arriso all’operazione. Possiamo dire che è stata una sorta di “consacrazione” della “ditta Coltraro-Puglia” (o “Puglia-Coltraro”, mai deciso in merito). Da allora, per nove anni, lo spettacolo ha circuitato (e continua a farlo), in numerosissime città siciliane (capoluoghi e piccoli centri) riscuotendo ovunque un incredibile consenso.
E’ vero anche che il testo è stato notevolmente modificato e adattato. Considera che, nell’originale, la vicenda si svolge nel viterbese e il Vinaio è un indigeno di Caprarola, mentre il Maestro proviene da Ispica. Noi, per esaltare la vena popolare di Cosimo e il mio (presunto) rigore stilistico, abbiamo ribaltato gli ambiti geografici (siciliano il Vinaio, milanese il Maestro) cambiando, di conseguenza, i reciproci linguaggi. Poi, giocando sul paradosso temporale, abbiamo inserito alcuni passaggi “profetici” (come la discussione sul “Grande Fratello” o quella sull’Euro e la situazione politico-economica). In più, svariate gag e scambi verbali, nati in prova o nel corso delle repliche, ormai talmente stratificati e consolidati da non distinguere più il copione originale da quello che noi abbiamo aggiunto e modificato negli anni.
… e ora tu caro Cosimo, tanto esuberante sulla scena quanto schivo nel parlare di te stesso, non scappare. Ci spieghi com’è che nasce questo sodalizio artistico con Emanuele che tanti buoni frutti ha dato in questi anni?
Beh, ci siamo “annusati” professionalmente e reciprocamente per tanti anni. Ogni volta che venivamo scritturati e avevamo modo di lavorare insieme e cresceva la stima e l’affetto reciproco. Un primo tentativo di auto-produzione lo facemmo tantissimi anni fa con “La signorina Papillon” (un testo delizioso di Stefano Benni) con il quale già sperimentammo un grande affiatamento di “coppia”.
“L’alba del terzo millennio” è stata la consacrazione di questo sodalizio. E’ uno spettacolo che ci siamo cuciti addosso come una seconda pelle, con il piacere di sperimentare, replica per replica, attraverso la tecnica e l’istinto, l’esperienza e la sorpresa, il rigore e l’improvvisazione, il nostro comune sentire la materia teatrale che, col tempo, è sfociata in un affiatamento che rasenta la perfetta sintonia!
Questo spettacolo, per noi, rappresenta innanzitutto il consolidarsi di un rapporto di amicizia cresciuto in maniera esponenziale in questi anni. Ora possiamo dire che è stato un punto di arrivo e convergenza di quelle che erano state le nostre carriere fino a prima e un trampolino verso un nuovo percorso come “coppia artistica”, già praticato con alcuni lavori come “Il Calapranzi”, “Don Chisciotte” e altri ancora.
Inoltre, questa continua vicinanza e il travaso reciproco di esperienze hanno dato spunto a quello che, speriamo, sarà il nostro cavallo di battaglia del prossimo decennio: “”Nati in bianco e nero”.
Se quello ce lo siamo “cucito addosso”, questo lo abbiamo “tatuato”.
T’abbasta?
Assupecchia!
Si, si, sono proprio due ragazzi terribili, orgoglio e vanto della tradizione che vuole Catania generosa donatrice di talenti teatrali unici e irripetibili. Ad Maiora!
Foto di Gianluigi Primaverile
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