Povero uomo: deceduto da almeno quaranta anni, i suoi resti sono stati trovati in una grotta lavica in territorio di Zafferana Etnea. Il fiuto di Halma, il pastore tedesco dal Soccorso alpino della Guardia di Finanza di Nicolosi, lo ha scovato nel corso di una delle frequenti esercitazioni effettuate dai finanzieri etnei conduttori di unità cinofile.
I resti dell’uomo, dall’apparente età di 50 anni, alto 170 cm circa, sono stati portati all’obitorio dell’ospedale Cannizzaro. A quanto pare morì per cause naturali: forse si infortunò e spirò in attesa di soccorsi. Oppure si improvvisò speleologo e non riuscì ad uscire fuori dalla grotta. Oppure scelse quel luogo simbolico (la caverna è un grembo di vita/morte) per suicidarsi.
Un orologio Omega, marca un tempo di gran moda, pochi spicci delle vecchie lire e un pettinino con la sua custodia, rinvenuti accanto al corpo, serviranno a datare il decesso, che si suppone sia avvento tra la fine degli anni’70 e i ‘90.
La sezione Investigazioni scientifiche del Comando provinciale dei Carabinieri, che ha effettuato i primi rilievi, sta cercando si risalire all’identità dell’uomo. Sebbene manchino i documenti non sarà difficile identificarlo, in quanto il corpo presenta come segni di riconoscimento malformazioni congenite al naso ed alla bocca; forse labbro leporino e palatoschisi, malattie genetiche che colpiscono 2 neonati su 1000, quindi abbastanza diffuse, un tempo invalidanti ma adesso corrette poche settimane dopo la nascita con protesi e con la chirurgia plastica.
L’uomo non morì in piena estate. Lo si evince dal suo abbigliamento da “mezza stagione”, insufficiente ad affrontare l’escursione termica tra notte e giorno che sull’Etna può essere molto elevata, giacché si passa spesso dai 30 gradi a qualche grado sotto lo zero.
Gli investigatori hanno diffuso il dettaglio degli indumenti che indossava: lunghi pantaloni scuri, una camicia chiara a righe, un leggero maglione di lana, degli scarponcini Pivetta n. 41 (calzaturificio olimpionico specializzato in scarpe e scarponi di montagna), una mantellina di nylon verde scuro, una cravatta nera e un cappello di lana con pon-pon (ci chiediamo: di che modello? Alla “don Basilio”? Oppure in maglia, come i marinai? O alla Pierino/Alvaro Vitali?).
Certo fa un po’ sorridere – con tutto il rispetto per il povero escursionista morto – la compresenza di questi due capi. Ma non dobbiamo stupirci: la cravatta sta ad indicare l’attenzione all’abbigliamento accurato anche in situazioni informali, cosa che era usuale 40 anni fa.
Anche il cappello con pon pon ha una sua dignità e c’è poco da ridere: la parola pon pon deriva dal francese ed ha origine militare; i soldati dell’esercito napoleonico, infatti, venivano equipaggiati con cappelli di lana, ognuno dotato di pon pon, ma con colori diversi. Ad ogni colore corrispondevano gradi e divisioni militati dei soldati.
L’escursionista morto nella grotta aveva un abbigliamento consono per i suoi tempi, ma non per i nostri. Chiunque si presentasse vestito in quel modo ad una gita del CAI verrebbe invitato a fare dietrofront.
Ormai l’abbigliamento di montagna o da trekking è ben diverso e si è molto evoluto. Sono lontani i tempi in cui sulle Dolomiti erano rigorosamente in uso pantaloni di velluto “alla zuava” ovvero “alla norvegese”, scarponi di cuoio e camicia di flanella. Walter Bonatti indossava un maglione di marca Fila rosso con inserti azzurri, indistruttibile ma pesantissimo. Non esistevano ancora il pile e i tessuti tecnici che hanno cambiato il panorama dell’abbigliamento da montagna e da escursionismo.
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