C’é, nel mondo della lirica, una tecnica che si chiama “belcanto” o “belcantismo” ed è caratterizzata dal passaggio omogeneo dalle note gravi alle acute, da agilità nell’ornamentazione e nel fraseggio e dalla concezione della voce umana come strumento. Insomma, una ortofonia vocale con un registro lievemente più alto, una incredibile agilità e flessibilità e un timbro morbido. L’enfasi maggiore è posta sulla tecnica, rispetto al volume, così da rendere evidente la bravura dell’esecutore.
C’era una volta nel teatro di prosa qualcosa di simile che potremmo chiamare “la bella recitazione”, che aveva più o meno le stesse caratteristiche e che era un vero godimento ascoltare, per l’armonia del suono e per la chiarezza espositiva; ora non c’è più, dimenticata.
Tuttavia, è accaduto l’altra sera alla sala Futura del Teatro Stabile di Catania, assistendo alla rappresentazione di “Decadenze” di Steven Berkoff per la regia di Giovanni Arezzo, di tornare indietro di decenni, osservando e ascoltando Alice Sgroi e Francesco Bernava protagonisti della pièces, e rivivere la magia della “bella recitazione”!
Che bel vedere e che bel sentire: passaggi di tonalità della voce da gravi ad acute, agilità nell’ornamentazione e nel fraseggio e una concezione della voce umana come strumento espressivo primario.
A sottolineare quanto s’è detto, Giovanni Arezzo ha imbastito una scenografia meno che minimale e ha volutamente, obbedendo all’autore stesso, risparmiato sui personaggi in palcoscenico, affidando alla voce e alle movenze del corpo e dei loro movimenti scenici la semiotica teatrale voluta da lui stesso e dall’autore secondo il ben noto principio aliquid stat pro aliquo.
Insomma, due gli attori quattro i personaggi; proprio come osserviamo nella vita di tutti i giorni in tutte le coppie dove non si è mai in due, ma in quattro: i due partner più i loro rispettivi fantasmi, che trovano una consistenza in tutta quella serie di proiezioni che l’uno riversa sull’altro.
Ad ogni buon conto, ‘O fatto è chisto, statemi a sentire … “la storia si svolge nell’immenso open space di un attico lussuoso. Qui vive Helen, ed è appena entrato in casa Steve. Steve è sposato con Sybil, ma è con Helen che va a letto, e con cui ha una relazione. Stasera, proprio stasera, Sybil ha mandato Les, il suo amante, a pedinare Steve, suo marito, per smascherarne finalmente e senza dubbi la fedifragia. Ora, Les è sotto casa di Helen. C’è un classico intreccio di tradimenti alla base della trama di “Decadenze”, capolavoro scritto del drammaturgo inglese Steven Berkoff nel 1981.
Ma le corna che sbucano dalle teste di tutti i personaggi della storia, sono soltanto un espediente, la base narrativa su cui costruire un analisi spietata, senza scampo, credule e spaventosamente credibile, di cosa può e sa essere oggi l’essere umano, di quello che sono diventati i rapporti tra le anime, le relazioni tra le teste, le polifonie dei cuori, di che cosa sta diventando, o è diventato già?, il mondo.
I personaggi di “Decadenze” sono personaggi pieni, parossistici, eccessivi, in tutto: amano in modo eccessivo, odiano in modo eccessivo, e così parlano, mangiano, scopano, fumano, bevono, soffrono, si vestono, si mentono, urlano, ridono, rischiano, dimenticano, rivendicano. Eccessivi nel desiderio, eccessivi nelle azioni, eccessivi nelle conseguenze. Eppure così piccoli e così simili a noi, nostro malgrado. Come da consiglio dell’autore, che lo scrive nella prima pagina del testo, a interpretare i quattro personaggi di “Decadenze” sono soltanto due attori. Nel mio caso, sono con me in questo viaggio Francesco Bernava e Alice Sgroi, che in un gioco di deliri visivi e acustici, di frenesia e silenzi, spostano gli occhi dello spettatore a spiare ora Steve ed Helen e ora Les e Sybil.
I versi, perché “Decadenze” è scritto in versi separati l’uno dall’altro dallo slash, con la loro identità linguistica, ricercata e mai banale, fine anche nelle volgarità e nelle bassezze, la complessità sintattica, la scansione metrica, riempiono ogni tipo di spazio, in maniera tale che ho voluto che fossero l’unico elemento su cui costruire questa storia. Versi così necessari, così incisivi che, che se pensati, se vissuti, se scanditi in azioni e reazioni dagli attori, diventano l’unica “scenografia” possibile.
Il nostro lavoro, dopo uno studio profondo del testo di Berkoff, è stato quello di creare un immaginario comune a noi tutti, che andasse dal luogo dove si svolge l’azione a tutto ciò che riguarda la biografia dei personaggi, andando a zoommare sulle relazioni che intercorrono tra loro, sulle aspettative, sulle volontà, sulle (non)prospettive, sugli incidenti. A questo abbiamo affiancato uno studio minuzioso sul suono del verso, sulle rime, sulle assonanze, sulle pause, cercando di restituire la musicalità che senz’altro ha il testo in lingua originale, e che può avere anche in italiano grazie alla splendida traduzione di Giuseppe Manfridi e Carlotta Clerici. (…)
“Decadenze” parla della direzione che stiamo prendendo, tutti, a velocità folle, e senza rendercene conto. E parla anche, indirettamente e oggi più che mai, della necessità del Teatro, che è l’unico Luogo all’interno del quale possiamo riuscire a guardarci allo specchio”.
Abbiamo trascritto tra le virgolette le note di regia vergate da Giovanni Arezzo a beneficio dei nostri lettori e sono esse stesse un piccolo capolavoro di chiarezza e di completezza teleologica, tali da indurre a vedere e rivedere lo spettacolo.
Sì, perché siamo di fronte ad uno spettacolo raro e di rara “confezione”.
Decadenze è un esempio classico di un teatro che non s’è mai visto a Catania: L'”In-yer-face theatre “.
Tradotto con una buona approssimazione, “Il teatro in faccia”, è un genere teatrale sviluppatosi in Gran Bretagna negli anni 90 e messo in scena da giovani drammaturghi che hanno rappresentato contenuti scioccanti, spesso di natura sessuale, prontamente etichettati come volgari dalla critica.
Esso non appartiene a una scuola, non c’è un manifesto e i suoi scrittori più significativi non hanno mai collaborato e discusso insieme delle linee guida; è un’etichetta per un gruppo di autori e di opere che hanno dei temi in comune; le opere appartenenti a questo genere sono di breve durata e risentono certamente dell’influsso del teatro postmoderno e metafisico, del teatro della crudeltà di Antonin Artaud e degli studi di Jacques Lacan.
Di fatto, il fenomeno si esaurisce con l’avvento del nuovo millennio, fino a ricomparire l’altra sera alla sala Futura del Teatro Stabile di Catania.
Il teatro “in faccia” sciocca il pubblico per l’estremismo del suo linguaggio e delle sue immagini; li sconvolge con la sua franchezza emotiva e li disturba con la sua acuta messa in discussione delle norme morali.
Non solo riassume lo spirito del tempo, ma lo critica anche. La maggior parte delle commedie “in faccia” non è interessata a mostrare gli eventi in modo distaccato e consentire al pubblico di speculare su di essi; esse vogliono che il pubblico provi le emozioni estreme che vengono mostrate sul palco.
Il teatro “in faccia” è teatro esperienziale. L’in-yer-face theatre è il tipo di teatro che afferra il pubblico per la collottola e lo scuote finché non riceve il messaggio ed è definito dal New Oxford English Dictionary (1998) come qualcosa di ‘palesemente aggressivo o provocatorio, impossibile da ignorare o evitare’. Il Collins English Dictionary (1998) aggiunge gli aggettivi ‘conflittuale, sfacciato’.
Esso Implica essere costretti a vedere qualcosa da vicino, avere il proprio spazio personale invaso. Suggerisce l’attraversamento dei normali confini.
Con il linguaggio sporco, c’è la nudità, le persone fanno sesso di fronte al pubblico, scoppia la violenza, un personaggio ne umilia un altro, i tabù vengono infranti, vengono affrontati argomenti innominabili, le strutture drammatiche convenzionali vengono sovvertite. Sono storie di abusi.
Soprattutto, questo brat pack, questa banda di monelli, è la voce della giovinezza.
Nelle sue forme migliori questo tipo di teatro è così potente, così viscerale, che ti costringe a reagire, ad avere voglia di salire sul palco e fermare ciò che sta accadendo e magari decidere che è la cosa migliore che tu abbia mai visto e desiderare ritornare a rivederlo la sera successiva.
Tutto questo credo che sia stato visto e, ancor più, sentito dai fortunati spettatori l’altra sera, irretiti dalle straordinarie capacità attorali di Francesco Bernava e Alice Sgroi che più passa il tempo e più bravi si fanno; affascinano, ammaliano il pubblico semplicemente attraverso la tecnica data dal mestiere, resa pura per scelta professionale, e la passione, che in loro è vita, per il mestiere e per l’arte.
L’ultima nota la riserviamo alla regia che, sia pure attenta alle sensibilità dell’uditorio, è stata fedelissima allo spirito dell’In-yer-face theatre e in chiara sintonia con la collaudata mistica professionale di Giovanni Arezzo.
Lo spettacolo è vincitore del Premio “CATANIA PREMIA CATANIA promosso dal Taetro Stabile di Catania.
Assistente alla regia è stata Giada Caponetti, tecnico delle luci Simone Raimondo, i costumi sono di Grazia Cassetti, le musiche Originali sono di Orazio Magrì e Giuseppe Rizzo, mentre il progetto grafico di Maria Grazia Marano, quello fotografico di Santo D’olica, quello video Francesco Maria Attardi, l’ Ufficio stampa Chiara Chirileison , mentre l’organizzazione e l’amministrazione di Filippo Trepepi, Produzione mezzARIA Teatro. Credit fotografico Dino Stornello
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