Roma, città baldracca e santa, ha una blasonata libreria che confonde Orazio con Omero. Vien da dire: mio Dio come sono cadute in basso le vestali del sapere! Le librerie sono un baluardo e ci si aspetta che chi ci lavora abbia un minimo di cultura e conoscenza di storia. Certo, può accadere a tutti di sbagliare o confondere, ma in questo caso l’errore è clamoroso; adesso provo a spiegare il perché.
Innanzi tutto i fatti: come vedete nella foto, su uno scaffale della libreria è stato attaccato un manifesto con una frase poetica che esalta la grandezza eterna di Roma, la città dei Sette Colli, che tradizione vuole sia stata fondata da Romolo sul colle Palatino il 21 aprile 753 avanti Cristo (il Natale di Roma).
Il libraio attribuisce la frase ad Omero, autore dell’Iliade e dell’Odissea, vissuto in Grecia nell’VIII secolo avanti Cristo, quando Roma – se mai esisteva – era soltanto un villaggio circondato da una cinta muraria. Soltanto in seguito, molti secoli dopo, Roma divenne la magnifica e grandiosa città che ispirò il vero autore del componimento, il poeta latino Orazio, vissuto a Roma ben seicento anni dopo Omero e testimone vero della imponenza e monumentalità della città di epoca imperiale. Quei suoi versi, inseriti in una composizione poetica chiamata “Carmen Saeculare”, furono pubblicamente declamati sul Palatino e sul Campidoglio il 3 giugno 17 a. C. da un coro di giovani fanciulle durante delle feste civiche, i Ludi Saecularis, voluti dall’imperatore Augusto per celebrare la venuta dell’età dell’oro preannunciata dalla IV egloga di Virgilio.
Quell’inno corale di preghiera teso ad esaltare il destino egemonico ed eterno di Roma, impressionò i posteri. Quasi duemila anni dopo, per la precisione nell’aprile 1918, alcuni amministratori della Capitale, allo scopo di commemorare le vittorie campali delle truppe italiane ottenute negli ultimi mesi della Prima Guerra mondiale, chiesero al grande compositore Giacomo Puccini di musicare il “Carmen Saeculare”, su testo tradotto in italiano e modernizzato da Fausto Salvatori.
Il titolo della composizione pucciniana, con prima esecuzione 1919 (ovviamente 21 aprile), fu “Inno a Roma”: bello e toccante, al punto tale che qualcuno si rammarica che non sia diventato l’inno della Repubblica Italiana, al posto de “Il canto degli Italiani” (meglio noto come Inno di Mameli).
Durante il fascismo tutti gli italiani conoscevano l’ “Inno di Roma” e lo cantavano. Era un brano famosissimo, giacché la retorica fascista, inebriata dalla Romanità, se ne era impossessata e quel “Sole che sorgi” fu una delle colonne sonore del Ventennio.
Poi quell’inno cadde nell’oblio.
Recentemente è stato ripreso e cantato da Andrea Bocelli: chi vuole, su You Tube può fare un confronto con un tenore del calibro di Beniamino Gigli.
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