«Ero una rompiscatole fin da piccolissima. Non stavo ferma un momento, scalciavo piangevo strillavo e, soprattutto la notte, non dormivo, un aspetto, quest’ultimo, che si è trasformato in una consuetudine per tutta la vita. Tenendo conto che io, per quasi tutti i miei ormai parecchi anni, ho dormito in media tre o al massimo quattro ore per notte, posso ritenere di aver vissuto il doppio del tempo di una persona normale», così Lina Wertmüller (al secolo Arcangela Felice Assunta Wertmüller von Elgg Spanol von Braueich) descrive sé stessa nel libro di memorie Tutto a posto e niente in ordine (che prende il titolo da un suo film, non autobiografico in quel caso, del 1974).
E lei, Lina Wertmüller, ha vissuto davvero più di una vita, icona del cinema italiano del mondo – sul serio, però, non per modo di dire. Muove i primi passi in teatro, lavorano a fianco di Guido Salvini, Giorgio De Lullo e Garinei e Giovannini, conosce Enrico Job con il quale inaugura un sodalizio per la vita (professionale e privato), poi è autrice e regista per la radio e la TV, dal varietà allo sceneggiato (Canzonissima e Il giornalino di Gian Burrasca), passa poi al cinema, prima come segretaria di edizione per Armando Grottini poi come assistente alla regia per Fellini (“la sua complice segreta”), conosciuto tramite Flora Carabella, sua amica e moglie di Mastroianni.
Dopo 8 ½, anche con l’aiuto di Federico, Wertmüller riesce a coinvolgere il direttore della fotografia Gianni Di Venanzo in quell’avventura che è stata la sua prima regia per il grande schermo, I Basilischi: «con lui venne l’intera troupe di Fellini. Una bella fortuna! Anche perché non c’era una lira, e tutti accettarono di lavorare a quell’impresa solo per la simpatia che nutrivano nei miei confronti». Il film nasce da una visita della regista al paese natale del padre, Palazzo San Gervasio (Potenza), colpita dallo stile di vita dii zii e cugini nel profondo Sud scrive una sceneggiatura. Il film viene presentato e premiato a Locarno, all’estero si accende subito l’interesse per l’Italia raccontata da Wertmüller.
Nasce così la sua avventura cinematografica, gettando uno sguardo – dapprima stupito, poi via via sempre più analitico – sulla provincia di quell’Italia in preda al boom economico, in cui il benessere delle città non fa che acuire il divario tra centro e periferia del Paese, tra chi ancora deve combattere con i bisogni primari e chi invece può permettersi sogni e desideri. Mentre nasce la società dei consumi qualcuno rimpiange ancora “Lui”. Mimmina Quirico è la zia del protagonista de I Basilischi: con pelliccia animalier e cinepresa appresso arriva dalla metropoli alla Basilicata e stenta a credere alla realtà che si trova di fronte. “Avete votato i fascisti? Dopo tutto quello che vi hanno fatto?”, chiede esterrefatta agli abitanti del luogo, per lo più contadini che rimpiangono la mezzadria: vi sono nella provincia un immobilismo e delle forze invisibili impossibili da decriptare per la borghesia dei grandi centri urbani, moderni e proiettati nel futuro. È un ritratto piccolo, composto, tutto il baccano dello “stile Wertmüller” è ancora in potenza, ma attira subito l’attenzione per la sua sincerità. I Basilischi sono parenti stretti dei Vitelloni di Fellini – ma meglio, scrive addirittura qualcuno.
Lo sguardo dello regista sul calderone Italia parte da qui e, dopo un paio di musicarelli per far cassa, sarà il nucleo centrale dei suoi grandi successi degli anni ’70: una stagione fortunatissima, di critica e di pubblico, che le permette di conquistare un successo internazionale, fino alla fatidica nomination come miglior regia per Pasqualino Settebellezze, rendendola la prima donna a meritare questa candidatura. Ottiene anche le nomination per miglior film straniero, miglior sceneggiatura e miglior attore protagonista (Giancarlo Giannini). Non ne vince nessuno, ma resta nella storia: e nel 2020, al momento di accettare un Oscar onorario, propone di chiamarlo Anna.
Mimì metallurgico ferito nell’onore (1972), Film d’amore e d’anarchia – Ovvero “Stamattina alle 10 in via dei Fiori nella nota casa di tolleranza…” (1973), Tutto a posto e niente in ordine (1974), Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto (1974), Pasqualino Settebellezze (1975), sono i film dell’era imperiale di Wertmüller, lavori liberissimi, folli, scombinati all’apparenza, ma lucidissimi. Sono gli anni in cui il cinema italiano viaggia all’estero, viene visto con curiosità e ammirazione, i registi hanno delle storie da raccontare, storie che il mondo vuole ascoltare (e vedere) – con Film d’amore e d’anarchia Giannini vince anche il Prix d’interprétation masculine a Cannes. In Italia la critica è più severa: non le perdona la girandola di stereotipi provinciali con cui allestisce le sue farse, è troppo volgare, smodata, “senza peli sulla lingua”. In molti rimpiangono i toni dimessi del suo esordio e il successo all’estero accresce la diffidenza in patria: il suo cinema è “troppo”, c’è chi si vergogna di questa Italia smodata che gozzoviglia e si insegue con lupare e maggiolini. C’è da pensare anche che, forse, tutta questa girandola di sesso (con e senza amore) e turpiloquio per mano di una donna fosse un intruglio troppo indigesto anche per la borghesia colta (anzi forse, soprattutto per quella).
Ma lei prosegue dritta per la sua strada, fa sempre lo stesso film, rifiuta consigli e imposizioni dei produttori esteri, manda tutto all’aria. Per le major di Hollywood è troppo anarchica, per la critica nostrana troppo commerciale e sgarrupata: «Vorrei fare una precisazione: quando dico che faccio sempre lo stesso film — dichiara a “l’Unità” nel ‘74, in occasione della fine delle riprese di Travolti da un insolito destino — significa che affronto ogni volta lo stesso argomento. Già, perché io bado ai contenuti e me ne infischio della forma, non ho complessi di linguaggio: mi ritengo un’autrice popolare e perciò ho accantonato. per il momento, il teatro. L’ho fatto perché mi ero accorta che piacevo tanto ai signori perbene e, dunque, avevo sicuramente sbagliato tutto: mi piace ridere di una certa borghesia ma voglio farlo in piazza, non in un salotto, perché non potrei mai essere cinica, me lo impedisce il mio carattere».
Le sue sono storie di anarchici e puttane, di lavoratori e sognatori, in una babele di dialetti, ceffoni e, sì, anche di belle scopate. Nessuno come lei ha saputo raccontare bene l’Italia di quegli anni, affacciata sul futuro ma con un piede ben saldo in un passato fatto di rimpianti e recriminazioni, incapace di sanare una ferita sociale sempre più nascosta e trascurata. Lo ha fatto attraverso una commedia grottesca, esagerata – dai titoli alle sceneggiature torrenziali – benedetta da interpreti perfetti come Giannini e Melato, che si sono fatti volti e corpi attoriali di un cinema personalissimo e, contemporaneamente, popolare, di tutti. Non per tutti, certo: tra le fila dei detrattori figurano anche nomi celebri, primo fra tutti Nanni Moretti, che in una scena di Io sono un autarchico, ricordando alcuni titoli della regista, si mette a vomitare dal disgusto. Lei pensava fosse un’immagine ironica, ma quando Moretti si rifiuterà di stringerle la mano alla Berlinale del 1985 (per la presentazione di Un complicato intrigo di donne, vicoli e delitti), capisce che il disprezzo era autentico. «Moretti, ma vaffanculo!» è la sua pronta risposta. Da allora, per lei sarà sempre “l’abominevole”.
Vi è poi la traiettoria discendente di questa carriera scatenata, con film che iniziano a riproporre schemi usurati, immagini ripetitive, idee che iniziano a mancare. Fino alla lenta e inesorabile palude televisiva, spesso con la complicità di Sophia Loren, incontrata sul set di Fatto di sangue fra due uomini per causa di una vedova. Si sospettano moventi politici (1978), film che chiude l’epoca d’oro, e ritrovata anni dopo in Francesca e Nunziata (film televisivo del 2002) e Peperoni ripieni e pesci in faccia (2004), che a dispetto dei finanziamenti statali stellari rimane senza distributore. Un percorso che niente toglie ai capolavori, ma che ben evidenzia quella fortunata serie di interferenze tra il talento istrionico, l’intelligenza istintiva, la necessità di raccontare un’Italia scombinata e l’impossibilità di continuare a farlo di fronte a un Paese che sempre più difficile da riconoscere, da decifrare.
Lascia un commento
You must be logged in to post a comment.