“Socrate sei una torpedine marina: quando parli dai la scossa!”, dicevano i discepoli di quel Maestro dell’antica Grecia.
… e la scossa gli spettatori del Teatro Canovaccio di Catania l’hanno avuta davvero l’altra sera aggrappati alla soglia di quello Stay Thinking, di quell’esercizio intimo di visione in trasparenza, di quella esplorazione dell’ultima frontiera dell’Io così tanto affine alla maieutica socratica di Clara e Melania: i personaggi di DICOTOMIE, pièces scritta a quattro mani da Alice Sgroi e Roberta Amato e che l’hanno parimenti rappresentata.
Clara e Melania hanno portato in scena il “Male di Vivere” cioè quel tentativo di entrare in rapporto se stessi e con le cose ridotte alla loro essenza più nuda, a quell’osso di seppia di montaliana memoria:
“Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato..
Questo “gorgoglio”, questo cavallo che stramazza s’è visto, evidente, lacerante, dicotomico – appunto – nei corpi, nelle vesti, nel corredo, nelle parole, nelle voci delle due protagoniste Clara e Melania, due donne, due attrici che si incontrano nei camerini di un teatro, per la prima prova di uno spettacolo che le vede entrambe protagoniste. Lo scontro è immediato. Sono diverse, estreme, dicotomiche. Tra una prova trucco e un cambio d’abito le due donne si scontrano, si confrontano, inevitabilmente si raccontano.
Due donne agli antipodi forse, o forse più simili di quanto non sembri.
Dicotomie (sottotitolo: “Al buio le donne sono tutte uguali”) racconta, attraverso l’immaginario femminile, le molteplici sfaccettature del genere umano, poiché non esiste una sola questione femminile che non riguardi l’intera umanità.
Tutti i riferimenti culturali a nostra disposizione ci rimandano a una visione polarizzata del concetto di donna, senza mezze misure.
Donne lontanissime, agli antipodi, portatrici di pensieri antitetici e animicamente opposte almeno all’apparenza.
Diavolo e acquasanta, inferno e paradiso, bianco e nero, dannazione e salvezza, forza e fragilità, odio e amore. Due volti di un’unica medaglia.
Clara e Melania sono donne a loro modo corazzate che nascondono fragilità, inadeguatezza, insicurezza, disagio.
Dicotomiche ma gemelle, entrambe figlie del “male di vivere”.
Lo spettacolo è un invito alla riflessione alleggerito da parentesi ironiche, caustiche, mordaci e arricchito da inserti performativi e musicali, teso a raccontare la complessità del percorso animico di due donne e del loro disagio di vivere se stesse, o meglio, i loro personaggi, attraverso un procedimento di Soul Making degno del più navigato degli psicanalisti junghiani.
Un testo letterariamente molto ben fatto che merita un posto nell’Antologia delle cose da leggere e rileggere.
Il metodo drammaturgico usato è quello della riflessione, della confessione agli spettatori del proprio dramma attraverso “quel tarlo mai sincero che chiamano pensiero”.
Ciascuna pensa e grida al pubblico il proprio disagio, il proprio dolore dell’esser viva in un contesto che non le è congeniale e spesso ostile: insomma un atteggiamento che disvela una nevrosi evidente in entrambi, sia pure con eziologie ed epifanie differenti.
E sta tutta lì la scossa, la torpedine marina che ha dato l’elettroshock agli spettatori (uomini e donne): ciascuno, identificandosi nella fenomenologia dell’anima ora di Clara, ora di Melania, riconosceva se stesso sofferente accanto a loro sul proscenio!
Clara assillata dall’ignominia del sovrappeso e Melania da quella dell’essere controcorrente, diversa; una diversità ostentata, produttrice di ostilità e con un inascoltato, inconscio desiderio di pace che solo la banalità del normale può garantire presto e bene.
Si ride, anche, durante lo spettacolo; ma è un dramma, la tragedia di un male di vivere che è universale, che è ricerca incessante del proprio Daimon, di se stessi.
Nulla Salus Victis sembrano dirci, con vigore quasi fuori contesto ma molto apprezzato dal pubblico, Clara e Melania, Roberta e Alice, in un cupio dissolvi che traspare ab imis da qualsivoglia angolazione si osservi la scena.
L’ultima dea, la Speranza, non le abita; non c’è un’Itaca, un porto, un sogno nella loro Weltanschauung; non ci sono colori, arcobaleni o candidi soli.
Tuttavia, care Clara e Melania, sentiamo di dirvi, rubando le parole al poeta: “Mica si dice inverno se vien giù un bel po’ di neve, mica finisce il giorno se di notte il sogno è breve; questo venire al mondo è stato un gran colpo di culo, pensa se non nascevi” … “e se non potrai correre e nemmeno camminare, imparerai a volare”: basta chiudere gli occhi, alle volte; qualche volta per sempre.
Il progetto grafico è di Maria Grazia Marano, l’assistente alla regia è Gabriella Caltabiano. Foto di scena Dino Stornello. Voce fuori campo Nicola Alberto Orofino.
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