Avete mezz’ora per leggere questa recensione cari lettori? … No eh! Peccato.
Ci sarebbero diecimila cose da dire, tutte interessanti, sul Lungo pranzo di Natale di Thorton Wilder per la regia di Giovanni Anfuso prodotto da Buongiorno Sicilia nell’ambito del progetto Palcoscenico Catania: La bellezza senza confini che si replicherà a Catania da oggi al 18 Dicembre al Castello di Leucatia.
Un lavoro teatrale partecipato, empatico, che, dal debutto, è sempre riuscito a coinvolgere gli spettatori, i quali hanno risposto con lunghissimi e intensi applausi per gli attori – Anna Passanisi (Mamma Bayard e cugina Ermengarde), Davide Sbrogiò (Roderick, suo figlio), Liliana Randi (Lucia, moglie di Roderick), Angelo D’Agosta (Charles, figlio di Roderick e Lucia), Chiaraluce Fiorito (Genevieve, sorella di Charles), Maria Rita Sgarlato (Leonora Benning, moglie di Charles), Santo Santonocito (cugino Brandon). Consensi anche per Greta D’Antonio e Francesco Rizzo (i gemelli Lucia e Sam, figli di Charles), e Michele Carvello (Roderick, l’altro figlio di Charles) e Ilenia Scaringi (la balia) e naturalmente per Anfuso e Riccardo Cappello, autore di scene e costumi, e Paolo Daniele, che firma le musiche. Applauditi anche l’aiuto regista Agnese Failla, Davide La Colla ed Enzo Valenti, curatori di luci e suono, e Francesco Rizzo, assistente alla regia.
“Il bello di queste rappresentazioni – ha sottolineato Anfuso -, è stato che, al termine, ci siamo soffermati a dialogare con il pubblico dei temi, ancora attualissimi, proposti da Wilder: il trascorrere del tempo e le tradizioni tramandate di padre in figlio. Ed è l’ultima generazione di questa dinastia americana, che potrebbe benissimo essere mediterranea, italiana, a dissolvere o trasmettere il pensiero e i riti familiari”.
“Interpreto – sottolinea al proposito Michele Carvello – il personaggio di Roderick II, figlio di Charles e nipote di Roderick I. Anticonformista, smette di occuparsi dell’azienda di famiglia e decide di andare a vendere alluminio in Cina. Dunque un distacco anche emotivo con la famiglia, sottolineato nello spettacolo dalla lite tra il mio personaggio e suo padre. E quante famiglie hanno vissuto e vivono la distruzione delle proprie tradizioni?”.
“Frizzante, allegro e molto sensibile – afferma invece Greta D’Antonio – è il personaggio che interpreto: Lucia II, sorella di Roderick II. Al contrario del fratello, Lucia è legata alla famiglia e in particolare alla madre, Leonora, e in qualche modo fa proseguire le tradizioni: si trasferisce sì a New York per inseguire l’amore ma poi chiama la madre a vivere con sé. E molti giovani spettatori si identificano con lei: anche se decidono di partire per inseguire i propri sogni, il distacco con la famiglia è solo fisico e mai spirituale. Perché l’amore continua per sempre”.
Appartiene alla quarta e ultima generazione della casata Bayard anche Sam. Il quale, spiega Francesco Rizzo, che lo impersona, “verrà chiamato per combattere nella prima guerra mondiale e rimarrà ucciso”.
“La notizia della sua morte – aggiunge – arriva durante il pranzo di Natale e lascia sgomenti i familiari. Ma si percepisce anche, forte, l’emozione provata dal pubblico seduto a tavola con noi attori. Purtroppo quello della guerra è un tema che ci accompagna ancora oggi: una delle tragedie più grandi di cui l’Umanità non riesce a liberarsi”.
Un simbolo più che una persona reale è poi, la balia, interpretata da Ilenia Scaringi, l’unico personaggio che, al contrario degli altri, non invecchia.
“La balia – spiega l’attrice – accudisce di generazione in generazione i piccoli Bayard. È una sorta di personificazione dell’amore filiale nei confronti dei membri anziani della famiglia; materno nei confronti dei bambini. L’amorevolezza è la sua caratteristica e tiene molto alle regole della famiglia e della casa”
La balia accudisce, certo. Tuttavia la balia, sempre uguale a se stessa, a un certo punto si disinteressa del destino dei pargoli, oramai cresciuti, che ha accudito: la balia, pare a chi scrive, l’ombra immaginifica della Specie il cui compito è esclusivamente di aiutare la vita a non spegnersi e si disinteressa del destino dei singoli individui.
All’apparenza sembra che la piecès voglia indagare e sceverare Il significato del Natale e delle tradizioni in novant’anni di storia di una tipica famiglia americana alto borghese e invece è una lunga riflessione sul senso della esistenza di ciascuno dei protagonisti e per “convezione” agli spettatori commensali, in gran parte scioccati dal susseguirsi delle morti e delle rinascite fatalmente simili alle proprie storie familiari perché il dramma della perdita si ripete più volte nella nostra esistenza e ci costringe ad ammettere che la vita non può che scorrere attraverso i suoi innumerevoli morti.
Al centro di questo dramma c’è il rapporto della vita umana con l’esperienza traumatica della perdita, quando siamo costretti a perdere chi abbiamo tanto amato; ma anche quando gli ideali per i quali abbiamo vissuto si infrangono irreversibilmente, o quando dobbiamo lasciare una terra o una casa che avevano accolto la nostra vita e alle quali eravamo profondamente legati.
Un vero e proprio trauma psichico che contrasta con “l’assurdo desiderio” di ognuno di non morire mai e che fa venire alla mente, con simpatia, quanto insegnava la filosofa Hanna Arendt: “Non siamo fatti per morire, ma per nascere”.
Tuttavia la nostra vita inizia a morire già con il suo primo respiro.
Non solo perché la morte è il destino inesorabile che ci attende alla fine della vita, ma perché in ogni istante della nostra vita c’è qualcosa che si perde, si stacca, si separa da noi stessi, scompare.
In questo senso la morte non è, come ricordava Hidegger, “l’ultima nota della melodia dell’esistenza che ne chiude il movimento”, ma una imminenza sovrastante che ci accompagna da sempre.
La vita degli umani non è come quella vegetale o animale. Il fiore e l’animale sono destinati a perire (come noi) ma la loro vita non conosce il pensiero o l’assillo della morte. La vita animale è vita sempre piena di vita e non conosce la ferita della finitezza.
L’uccello nel cielo, come il giglio nei campi, per riprendere una nota immagine evangelica, non conoscono l’erosione del tempo perché vivono in un eterno presente, in un solo grande oggi: non sentono il peso incombente della fine, mentre per noi mortali “… la vita, nell’atto stesso che la viviamo, è così sempre ingorda di sé stessa, che non si lascia assaporare. Il sapore è nel passato, che ci rimane vivo dentro. Il gusto della vita ci viene di là, dai ricordi che ci tengono legati.”
Se non proprio queste riflessioni, altre simili a queste – penso – abbiano indotto Thorton Wilder a mettere su carta questo testo teatrale; riflessioni sposate e fedelmente rappresentate dal regista per ciò che gli compete e dai suoi attori; tutti impeccabili nella tecnica recitativa, nel rapporto col pubblico, e nella cura nell’accoppiare la parola al gesto, al sentimento posto dall’autore: un piccolo gioiello di precisione stilistica a cui ci ha abituati Giovanni Anfuso e a cui rendiamo grazie.
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