Non è frequente l’assistere a un doppio spettacolo quando si va a teatro. E’ successo l’altra sera. Si rappresentava al Piccolo Teatro della Città di Catania, per la regia di Nicola Alberto Orofino, il dramma di Arthur Miller Morte di un commesso viaggiatore.
Lo spettacolo non solo è piaciuto al pubblico, ma ha suscitato in esso un entusiasmo e una eccitazione tale si che, al calar della tela, i volti degli spettatori – e qui sta il secondo spettacolo – apparivano satolli e soddisfatti come se avessero assistito alla vittoria della squadra del cuore piuttosto che ad una irrimediabile tragedia. Uno spettacolo vi dico!
Questo piccolo miracolo è accaduto grazie al genio di Arthur Miller, alla bravura degli attori Miko Magistro, Debora Bernardi, Luca Fiorino, Giovanni Arezzo, Francesco Bernava, Santo Santonocito, Gianmarco Arcadipane, Daniele Bruno, Alice Sgroi e Lucia Portale, ma soprattutto alla regia sapiente, intelligente, smaliziata e ammiccante di Nicola Alberto Orofino che si conferma, ad ogni performance, uno dei più apprezzati registi del panorama catanese.
Il dramma di Miller come scrive lo stesso Orofino è “una storia di fallimenti”. Falliscono tutti i protagonisti della storia, vittime dei miti americani dell’efficienza, del profitto, della competizione che non fa prigionieri, che non ha pietà dei “vinti”; miti frutto della logica capitalistica e del mercato, dove ogni cosa è preordinata alla produzione dei beni e ogni cosa ha valore se produce ricchezza; dove le persone sono chiamate “Risorse Umane” come lo è un macchinario o una somma in banca: un mondo dove l’umano è accessorio, dove l’umano è sacrificabile e la sua sofferenza vale “quanto il due di coppe quando la briscola è a oro”.
Miko Magistro ha vestito i panni di Willy Loman sulla scena e ne ha interpretato genuinamente, da maestro qual è, il tormento, le inadeguatezze, i limiti, la disperazione, la sindrome da deficit di attenzione da cui è affetto. Forse un ritmo recitativo un po’ meno accelerato nelle parti introspettive avrebbe caratterizzato maggiormente il personaggio e avrebbe esaltato le formidabili capacità espressive di Miko Magistro.
Biff, il figlio maggiore di Willy è l’oggetto sacrificale delle proiezioni del padre: il primo dei suoi sogni sbagliati; l’assurda pretesa di plasmare la vita, il carattere di un figlio imponendogli il proprio sentire.
Un plagio che non riesce per la naturale ribellione, tanto consapevole quanto inconscia, del ragazzo che comunque resterà prigioniero per tutto il tempo di uno schizofrenico Odi et Amo nei confronti del padre.
Sarà l’unico che alla fine rifiuterà di aderire al conformismo dominante: vinto ma non assimilato. Gli ha dato vita egregiamente Luca Fiorino.
L’altro figlio è Happy, il figlio cieco. Cieco non fisicamente, ma caratterialmente. Si ferma sempre volontariamente alla superficie delle cose e dei ragionamenti, non regge il peso delle realtà, ottimista per conformità al credo dominante; quasi crapulone nella ricerca del piacere di vivere pagato col rifiuto di vedere: un novello Papageno che non capisce ma si adegua, fino alla negazione dell’evidenza. Giovanni Arezzo è stato sempre all’altezza del personaggio.
I personaggi cosiddetti minori: Bernard/Gianmarco Arcadipane, zio Charley/Francesco Bernava, Zio Ben/Santo Santonocito, Howard Wagner/Daniele Bruno hanno poi svolto la loro funzione ancillare con cura e precisione.
Morte di un commesso viaggiatore è un dramma di uomini, scritto per uomini, è – in pieno – figlio del suo tempo.
Fu dato alle scene nel 1949, un tempo in cui ancora il patriarcato non era stato messo in discussione: la donna era subalterna agli uomini e aveva funzioni sociali ben circoscritte, quasi tutte al servizio del genere dominante, quello maschile; sicché le donne nel “Commesso” di Miller risultano essere solo di due tipi: o sante o puttane; o si adeguano alla convenzione e alla morale dominante oppure vengono relegate ai margini della convivenza, squalificate, demonizzate.
Santa è Linda, la moglie di Willy, interpretata da una Debora Bernardi in stato di grazia, devota, attende il marito, lo consola delle sue paturnie, si fa carico delle inadeguatezze dei figli e delle incombenze domestiche, asessuata; un archetipo piccolo borghese perfetto, finanche nel requiem finale che la vede protagonista assoluta e la vede sciogliersi nel pianto senza speranza è uguale a se stessa, incardinata com’è, nell’etica comune.
Puttana è “la donna”, un essere umano femmina a cui non è concesso nemmeno il diritto ad una sua identità particolare, identificata solo nel mestiere preordinato alla “consolazione” di Willy lontano da casa, a Boston, dove può, senza vergogna, mostrare qua e là spicchi di coscia com’avesse solo quelle e fosse senz’anima. L’ingrato compito è stato svolto decisamente bene da Alice Sgroi.
Puttana e demoniaca è la Signorina Forsythe la quale, nel segno del “questo o quello per me pari sono”, offre generosamente le proprie grazie ai maschi della famiglia Loman in cerca di una mercede, qualunque essa sia. La prosperosa Lucia Portale l’ha impersonata con una levità degna di nota.
Insomma ciò che Miller ci consegna è un quadro sociale e intimo di un mondo selvaggio, senza pietà e disperato che, dalla rivoluzione industriale in poi, a grandi passi, s’è diffuso in tutto il globo.
Il plauso maggiore dello spettacolo va senz’altro alla regia di Nicola Alberto Orofino, specialista nel dirigere spettacoli di successo quando la produzione è povera di mezzi.
Il dramma di Miller si svolge in numerose scene e contesti, tutti ben descritti dall’autore: ci sono quattro o cinque cambi di scena per ogni atto, sicché è molto difficile allestire scene e costumi se si hanno a disposizione pochi spiccioli; eppure con pochi elementi di scena (curati da Vincenzo La Mendola) l’accorta regia ha egregiamente supplito il deficit con calibrate invenzioni.
Se a questo si aggiunge la buona conoscenza che l’Orofino ha del suo pubblico, si raggiunge il climax dell’efficacia ermetica.
Per esempio, il regista ha ammiccato apertamente agli spettatori usando la musica composta da John Williams per la colonna sonora del capolavoro di Spielberg Schindler’s List ch’è scolpita nel cuore dei tanti che hanno visto il film; ma il suo “capolavoro” è stato l’uso dell’inno americano in versione completa e “abbiato a vuci ri testa” in ben due momenti della rappresentazione: la prima a sottolineare la vita quotidiana del risveglio mattutino, borghese, americano della famiglia Loman; una scena tutto sommato normale, quasi del tutto priva di particolare pathos, eppure – potenza evocativa della musica! – alla fine della scena e dell’inno, il pubblico, spinto dall’emozione, ha applaudito … la scena, gli attori – direte voi? No. – l’inno statunitense!
A dire il vero è stato un mezzo applauso perché quasi immediatamente l’eccitato pubblico si è accorto che l’applauso era fuori contesto.
Uno spettacolo nello spettacolo si diceva all’inizio: le reazioni del pubblico.
Non contento, il regista ha ripetuto l’inno americano a conclusione del dramma e nei lunghi meritatissimi applausi finali, subito dopo il breve monologo di Linda, reso struggente dalla bravura di Debora Bernardi.
Il pubblico, finalmente in sintonia con la narrazione, è andato in visibilio e non avrebbe smesso di applaudire se fosse dipeso da lui.
Se m’è concessa: una nota di amarezza.
Willy Loman incarna l’archetipo della paura di non farcela, di non essere capace nella vita, di fallire i propri obiettivi, di disperdere le proprie aspirazioni, di mancare l’esistente facendosi precedere dall’essenza, per dirla con Sartre; una paura ancestrale che attraversa i millenni e i cinque continenti, sicché capita a tutti, talvolta, di fallire e per mille motivi.
Il motivo per cui Willy fallisce, Miller lo condensa in due battute, due versi poetici che mette in bocca al figlio Biff.
Willy Loman era uno che “Sbagliava i sogni, Quelli li sbagliava. Tutti.” … “Credeva di essere una cosa ed era un’altra”.
E’ il succo, il fondo, il cuore della storia psichica e reale di Willy, una amara, drammatica, crudele sentenza. … e Orofino che fa?
Gliela fa dire ad un Biff appollaiato su una scala, indaffarato a far altro, seminascosto, in fondo al palcoscenico!
Battute che sarebbero arrivate al cuore di ciascun spettatore e l’avrebbero indotto ad una salutare autoanalisi se – registicamente – si fosse dato loro il giusto valore.
Quanti tra noi credono di essere una cosa e invece sono un’altra cosa?
… a cominciare da chi scrive.
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