Insomma! Non c’è nessuna speranza, la donna o è santa o è puttana.
Tertium non datur! … e s’intende, è preferibile la santa.
All’osso, è questo il messaggio subliminale che due monumenti del teatro italiano e siciliano, Nino Martoglio e Luigi Pirandello, consegnano ai contemporanei e ai posteri nel dramma scritto tra il 1916 e il 1917 a quattro mani “A Vilanza”, la bilancia in lingua italiana, un dramma in tre atti scritto in lingua siciliana: a metà fra la sua derivazione girgentana e quella catanese.
Il Gruppo d’Arte Sicilia Teatro diretto da Tino Pasqualino l’ha riproposta l’altra sera al Teatro Ambasciatori di Catania per la regia di Turi Giordano.
Martoglio e Pirandello, perfettamente integrati nel tempo e nel contesto sociale che Domineddio ha assegnato loro, rappresentano in quest’opera un spaccato di vita contemporanea che è eterna come è eterno uno sgradevole sentimento come la gelosia.
Naturalmente il dramma si srotola secondo i canoni morali vigenti cent’anni fa, ma le torsioni semantiche e psichiche che i protagonisti vivono sono eterne.
La storia è una specificazione in salsa sicula della legge del taglione: Saro (Toni Pasqua) cornifica Orazio (Giacomo Famoso) intrecciando una relazione con la di lui moglie Ninfa (Luana Piazza); Orazio, scoperta la tresca, piuttosto che ammazzare il fedigrafo decide di restituire l’offesa violando la di lui moglie Anna (Gabriella Ròdia) sicché il conto potesse essere pari, la bilancia si potesse riequilibrare: uno a uno e giustizia è fatta senza spargimenti di sangue.
Quasi geniale. Una specie di Mimì Metallurgico ante litteram!
Sennonché la materia del contendere non è fatta di sacchi di patate che sono fungibili, in ballo ci sono i sentimenti e la considerazione che di essi ha la comunità in cui sono immersi i personaggi.
Ninfa è l’incarnazione del male e induce in tentazione Saro, Anna è l’incarnazione del bene e subisce la violenza di Orazio: il bene non può essere uguale al male, la bilancia resta squilibrata e finirà come deve finire.
Un dramma tutto teso all’esaltazione delle virtù del maschio, padrone delle donne, siano esse sante o puttane, esse sono poco più che appendici dell’uomo; e giustizia vuol dire ristabilire l’onore senza badare alla vita, ai sentimenti, al pensiero delle donne.
Tutto questo e tanto altro è stato reso con perizia e dignità dall’intera compagine attoriale cui ha regalato un delizioso cammeo Maria Piana nel ruolo della Za Rachela.
La regia di Turi Giordano è stata accorta e ha dato scorrevolezza alla rappresentazione per quanto appesantita da un narratore (il pur bravo Simone Pappalardo) che ripetendo quasi per intero le note di regia scritte da Martoglio e Pirandello, è sembrato a tratti pleonastico, quasi che s’avesse paura che il pubblico non fosse capace di intendere lo svolgimento della storia o che gli attori avessero bisogno d’un aiuto per farsi intendere.
Lodevole l’aggiunta di storia del diritto penale italiano a conclusione della “storia” con le citazioni del Codice Zanardelli e del Codice Rocco che ha sollevato il morale del pubblico quando ha saputo che, piuttosto che l’ergastolo, il vendicatore buono fu condannato soltanto a 5 anni di carcere!
Applausi a scena aperta del pubblico in sala all’intera compagnia e, manco a dirlo, applausi scroscianti per la Santa/Gabriella Ròdia: segno che non c’è salvezza per le Puttane, fra le due la gente preferisce sempre le Sante, cent’anni fa allo stesso modo di oggi … almeno in pubblico.
Capisciammè!
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