Cadeva di sabato il 19 Novembre del 2011. A Catania si dava, al Teatro del Canovaccio, l’atto unico scritto in lingua siciliana e interpretato da Nino Romeo, Post Mortem per la regia di Pippo Di Marca.
Rare volte nella nostra trentennale carriera di critico teatrale c’è capitato di entrare a teatro in un modo e uscirne diverso. Quella sera capitò.
Le emozioni furono così profonde che non bastò conservare la locandina con una magnifica opera di Burri e metterla in cornice per averla sempre presente, ci procurammo il testo per riviverlo, lasciarcene turbare ancora, per capire, per ritrovare – come dice il poeta – il sottile, inconfessabile piacere del dolore.
Post Mortem è tornato a Catania, per sei sere consecutive nei locali di Fabbrica Teatro, prodotto dal Gruppo Iarba/Gria teatro, stesso interprete, stesso regista, identico turbamento; spettatori increduli e sgomenti che, come allora, confusi, non sapevano cosa mostrare per primo a se stessi: il compiacimento per l’eccellente rappresentazione oppure lo smarrimento per i messaggi sconvolgenti da esso ricevuti.
Post Mortem è la riduzione teatrale della novella, dall’omonimo titolo, scritta da Romeo nel 2000 e narra la vicenda di Delfo Torrisi, un docente di medicina legale alle prese con se stesso, la sua satiriasi, con le sue origini, il suo passato, il suo presente e il suo futuro; in una ricerca di senso e di consapevolezza che intende coinvolgere il suo interlocutore immaginario, per richiederne l’aiuto, almeno inconsciamente, a trovare la chiave di lettura che gli consenta di evitare il proprio inevitabile annichilimento.
Dal 2000 ad oggi su Post Mortem sono stati versati fiumi di inchiostro, ne hanno scritto in tanti fra mostri di cultura teatrale, giornalisti, critici, docenti universitari ed è davvero difficile aggiungere note che già non siano state scritte.
Il compito è arduo, ci proviamo, ma non garantiamo.
La lingua siciliana. Taluno l’ha giudicata antica, ricercata – e l’ha pure scritto – ma non è così; chi l’ha giudicata non più attuale lo fa perché non la pratica o non la conosce. Grazie/per colpa della Televisione, l’omologazione linguistica sta finendo di “ammazzare” la nostra bella lingua siciliana.
Romeo l’ha scolpita così come l’ha assorbita e ce ne ha fatto dono.
Non solo per i ragazzi, ma persino per gli adulti il siciliano oramai è la seconda lingua, ahimè.
Per questo motivo penso che i posteri, il futuro saranno debitori, fin dora, a Nino Romeo per la sua novella che è un pezzo, piccolo ma intenso, di lingua siciliana che “resterà” per far sapere a tutti come nei tempi passati gli uomini di Sicilia esprimevano i loro sentimenti.
La Regia. Il catanese Pippo Di Marca, romano ad immemorabilia, in gioventù Ispettore Superiore del Ministero della Pubblica Istruzione che in una sorta di contrappasso infernale passò – a piè pari, negli anni settanta – dall’essere sacerdote dell’arida burocrazia statale all’essere uno dei più stimati e prolifici interpreti dell’avanguardia teatrale italiana; per l’occasione, ha inventato un gioco di decine di bicchieri e bicchierini, brocche e bottiglie d’ogni foggia e ha dato movimento – supportato dall’uso sapiente delle luci – a un racconto che nasce, per forza statico, come può esserlo la confessione di un paziente sul lettino dello psichiatra.
L’interpretazione. Ictu oculi, l’intera storia è tanto fantastica, tanto surreale, quanto maledettamente reale, fisica solo che si riesca ad addentrarsi nei diversi piani dell’esistenza umana.
Nino Romeo ha reso questa complessità, questo atroce dramma con la levità che gli è propria, dentro e fuori la scena. Il ritmo della sua interpretazione è l’incarnazione archetipica di tutti i Delfo Torrisi i cui comparti del carattere hanno avuto origine nella Sicilia paesana e contadina.
Il testo si presta ad essere interpretato in tanti, differenti modi i quali renderebbero ugualmente affascinate il racconto; ma Romeo preferisce mettere se stesso dentro Delfo e lo vive con saturnina compiacenza; e ci gioca come fa il Leone Gala del “Giuoco delle parti” di Pirandello, con l’uovo che tiene in mano destinato a squacquerarsi per terra: lo stesso distacco, la stessa sofferenza, lo stesso tormento.
Post Mortem è un gran bel testo, un testo che andrebbe inserito nelle antologie scolastiche come un classico per la profondità dell’indagine psicologica del protagonista e dei personaggi che si relazionano con lui; andrebbe inserito, a mo’ di esercitazione, nei testi di psicopatologia forense per lo stesso motivo.
Da raffinatissimo analista e abile letterato, Romeo descrive i suoi personaggi con pennellate che hanno tutte la caratteristiche di presentarsi ordinarie, quasi banali, ma che invece arrivano al fondo del fondo della loro “essenza che consiste nella loro esistenza” per dirla con Heiddeger.
La storia di Delfo Torrisi lungi dall’essere surreale è intimamente esistenzialista: Delfo non è nient’altro che quello che progetta di essere, egli esiste nella misura in cui si realizza, non è nient’altro che i suoi atti anche quando un destino crudele lo spinge verso una epifania di sé che disvela l’inganno dell’apparenza della propria razionalità e la irrazionalità strutturale della propria essenza.
Cari lettori, vorremmo potervi dire che l’assassino è il maggiordomo, ma non ci è concesso; occorrerà che corriate a vedere questo dramma dal vivo quando sarà riproposto o procurarvene il libretto.
… e scommetto che a Sartre Post Mortem sarebbe piaciuto un sacco.
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