Lucia Joyce, la morta senza il vestito, al Centro Teatrale Fabbricateatro di Catania

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Lucia Joyce, la morta senza il vestito, al  Centro Teatrale Fabbricateatro di Catania

Abbiamo assistito ieri sera al Centro Teatrale Fabbricateatro ad uno spettacolo per adulti: il dramma “Nel nome del padre” ideato e scritto da Elio Gimbo che, attraverso una silloge di scritti di Virginia Woolf, Thomas S. Eliot, Sibilla Aleramo e dello stesso James Joyce ha messo in scena la sfortunata vita di Lucia, diletta figlia di James.

Nata a Trieste la mattina del 26 luglio 1907 da Nora Barnacle la quale si vergognava “di averla partorita praticamente in mezzo a una strada con indosso un soprabito da uomo che mi faceva somigliare ad un mucchio di stracci”, Lucia morì il 12 dicembre 1982 presso l’ospedale psichiatrico St. Andrews a Northampton, Inghilterra.

La sua passione per la danza, che praticò durante la prima giovinezza, le consentì di diventare precocemente una promessa della danza moderna; l’innamoramento non corrisposto per Samuel Beckett, più interessato al padre James che a lei, le procurò una prima incrinatura nell’equilibrio psichico.

Nel 1932, nel pieno di una crisi, Lucia spaccò una sedia in testa a Nora; a quel punto Giorgio prese l’iniziativa ricoverandola in una clinica psichiatrica. Da allora e per tutta la vita la ragazza entrò ed uscì da innumerevoli strutture analoghe collezionando diagnosi discordanti e subendo terapie inutili.

Per un periodo significativo fu anche presa in cura da Carl Gustav Jung, non esattamente un estimatore di James Joyce, quel suo buffo padre con il collo da giraffa, possessore di un’incredibile serie di cravatte, terrorizzato dai temporali, che passava i pomeriggi nei caffè a bere vino bianco, quel padre che come un ragno aveva avvolto la letteratura europea nella sua ragnatela d’oro.

Questa fu la conclusione di Jung: “I manicomi sono pieni di ragazze troppo legate ai padri se non innamorate di loro, bisogna a tutti i costi strapparti dall’orbita di tuo padre al quale sei unita da una relazione inestricabile di sessualità repressa e consonanza artistica. Tuo padre sfrutta l’oscurità della tua mente per il suo lavoro creativo”.

In nome del padre prende il via da un’immagine creata da Elio Gimbo: Lucia è intenta a incidere con un coltello il proprio nome sulla tomba di famiglia nell’affermazione disperata del proprio posto in seno alla famiglia che l’ha rinnegata finanche da morta negandole tanto l’identità quanto l’appartenenza alla famiglia con l’esclusione dalla tomba comune, proprio come quella morta che “non s’è potuta vestire” di pirandelliana memoria.

Nel mentre graffia la lapide, Lucia incontra i fantasmi dei propri ingombranti genitori. Tra il sogno e l’allucinazione psichica il trio rivivrà la vita in comune che appartenne loro, danzando tra le perle dei sogni di gloria realizzati e i cocci dei sogni privati infranti.

Dicevamo, uno spettacolo per adulti. Proprio così.

Adulti, forse più che adulti; e ciò non solo a causa dei temi trattati che abbisognano di gente “cresciuta” per essere compresi, ma anche per come essi sono narrati, prendendo a prestito pagine di scrittori, per se stessi, difficili da leggere e da capire, infarcendo il testo di richiami aulici a spettacoli e film già visti e non a tutti noti così come apparivano alla mente in costante ebollizione creativa del regista/sceneggiatore.

Per adulti perché occorre avere molto studiato di letteratura e di teatro per coglierne i cento messaggi, per adulti perche tratta di un dramma, un dramma familiare che solo chi è avanti negli anni può comprendere fino in fondo, dopo aver vissuto i ruoli di figlio/a e madre/padre.

La pièces dà un tale effluvio di spunti di riflessione allo spettatore che non è qui possibile nemmeno farne un elenco; possiamo solo spigolare qua e là per tentare d’arrivare alla Weltanscaaung che le sta dietro, se c’è davvero una Weltanscaaung.

I personaggi sono tre che elenchiamo in ordine di definizione crescente tanto drammaturgica quanto psicologica: Jimmy Joyce interpretato da Giovanni Calabretta, Nora Bernacle Joyce interpretata da Barbara Cracchiolo e Lucia Joyce interpretata da Sabrina Tellico.

Padre, madre e figlia sono rappresentati in una girandola di scontri laceranti e rappacificazioni più desiderati che reali a cominciare dalla maternità mal vissuta da Nora, molto probabilmente dovuta al vulnus che, oggettivamente, rappresenta per l’economia dell’io di una donna la gravidanza prima e la nascita di un bimbo dopo: un disagio che spesso si trasforma in quella che vien detta la depressione post partum e che influenza nei casi gravi tanto la salute psichica della madre quanto del bambino/a.

E’ probabile che Lucia fin da prima di nascere abbia subito la non accettazione della madre e questo l’abbia segnata nel profondo per tutta la vita, ricercando in uno “strano” padre quell’accettazione che le è sempre mancata.

Un padre straordinario nel senso latino del termine: extra ordinem, cioè fuori da ogni schema prestabilito in ogni campo dell’agire umano che rinchiude Lucia in manicomio quando in manicomio, secondo il comune sentire, avrebbe dovuto andarci lui.

Una madre arcigna, “folle” anch’essa (come sarebbe potuta rimanere per tutta la vita accanto a Jimmy altrimenti!), dura, disincantata, con la schizofrenia borghese che proprio in quel periodo s’affacciava alla conoscenza scientifica e all’opinione pubblica e che induce ad essere ora quello ora questo a seconda dello stato d’animo e delle circostanze.

Un padre narcisista, tutto teso al soddisfacimento del proprio sé che ama Lucia ma che non può fare a meno di essere come è, ossessionato dall’ordinata ripetizione paranoide dei ritmi quotidiani vissuti come necessitata normalità; mentre tutta la sua opera letteraria sconvolge gli stilemi, i paradigmi borghesi ch’egli invece vive nel quotidiano: di notevole forza espressiva e simbolica, in questo senso, è apparsa coerente la scabrosa scena del pasto inguinale tra Nora e James che ha tanto turbato il pubblico quanto questa sia stata un piccolo capolavoro di regia e sapiente interpretazione di Barbara Cracchiolo e Giovanni Calabretta.

Di tutto queste contraddizioni fa le spese Lucia che dalla prima battuta, tanto sotto forma di contumelia quanto in atteggiamento docile e rassegnato, non fa che gridare una sola parola: aiuto! Alla ricerca di un abbraccio che renda piano il groviglio di spigoli, di linee interrotte della propria vita, nella speranza di un miracolo che rechi in dono un cerchio perfetto.

Una richiesta d’aiuto rivolta ai genitori, alla famiglia, al mondo intero … fino alla resa finale.

Quanto alla difficile regia di un testo basato essenzialmente sulla parola, crediamo che l’esperimento sia riuscito egregiamente fra invenzioni sceniche molto efficaci e scelte drammaturgiche che hanno dato risalto all’impeccabile stile recitativo dei protagonisti, mai frettolosi di liberarsi della battuta e sempre attenti alla cura della parola detta, tranne qualche eccezione.

Le musiche hanno bene accompagnato il quadro emotivo che s’andava dipanando, spezzando ove possibile, l’atmosfera plumbea del racconto e conferendo una leggiadria tale ai movimenti scenici di Sabrina Tellico e Barbara Cracchiolo che, quasi sempre, sembrava che non stessero recitando tanto erano immerse nei loro personaggi.

Il dramma si chiude con la consapevolezza cosmica che tutto troverà pace in un “mucchietto di polvere livida”, seguendo la lezione di Tomasi di Lampedusa, senza rimproveri e senza nostalgie.

A dare il succo dell’intera storia, citiamo il biglietto di sala che pone come epigrafe questo amaro, delicato pensiero di Joyce estratto da “Gente di Dublino”: “La sua anima si era avvicinata a quella regione in cui dimorano le vaste schiere dei morti. Era conscio della loro vacillante ed illusoria esistenza ma non riusciva ad afferrarla. Perfino la sua identità pareva perdersi in un mondo grigio e impalpabile: e il mondo stesso, così solido, in cui quei morti avevano creato e vissuto, si dissolveva e svaniva…e pian piano l’anima le svanì lenta mentre udiva la neve cadere, come la discesa della loro fine ultima, su tutti i vivi e su tutti i morti.”

Ascoltando Lucia arrendersi alla Verità, mentre pronuncia il suo addio alla vita e presagendo il calar della tela, è parso – a chi scrive – di rivedere, quasi in un lampo eterno, la Sonja di Cechov dire allo Zio Vania:  “quando verrà la nostra ora, moriremo rassegnati e là, nell’oltretomba, diremo che abbiamo sofferto, che abbiamo pianto, che abbiamo conosciuto l’amarezza, e Dio avrà pietà di noi e tu ed io, zio, caro zio, vedremo una vita luminosa, meravigliosa, splendente; noi ci rallegreremo e, commossi, ci volteremo a guardare le sciagure di oggi, con un sorriso, e riposeremo.

Lo credo, zio, lo credo ardentemente, appassionatamente … noi riposeremo!

Noi riposeremo!

Sentiremo gli angeli, vedremo il cielo cosparso di diamanti, vedremo tutto il male della terra, tutte le nostre sofferenze annegare nella misericordia che colmerà di sé il mondo e la nostra vita diverrà quieta, tenera, dolce come una carezza.

Io credo, credo, povero, povero zio Vanja, …

Noi riposeremo

Noi riposeremo!

Riposeremo!”

Lasciando la sala, appena fuori dal teatro, alzammo lo sguardo a cercar le stelle mentre ci accompagnava la consapevolezza che Lucia Joyce aveva ben compreso un pensiero che facemmo nostro decenni or sono: la Verità nel momento in cui è detta si fa vile, “… and it’s hard, but it’s harder to ignore it” per usare le parole dell’amato Maestro della nostra giovinezza Yousuf Islam al secolo Cat Stevens.

 

 

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