A parte i numerosi tagli e le tante aggiunte c’era tutto. Cechov c’era tutto.
Potremmo sintetizzare così la nostra recensione dello spettacolo a cui abbiamo assistito al Teatro Grotta Smeralda di Catania a cura dell’Associazione Proscenio che ha messo in scena per due sere consecutive una riduzione e una rivisitazione del dramma di Anton Cechov “Il Gabbiano” – il dramma quasi shakespeariano dell’autore russo in cui tutti (proprio tutti) i personaggi rappresentano i loro fallimenti esistenziali e su cui Ananke pone la sua inesorabile scure, proposto in pieno periodo natalizio, periodo universalmente vocato alla speranza, la salvifica Speranza del dono – il vero autentico dono – di Dio Padre all’Umanità sofferente: il suo Unico Figlio.
Una operazione coraggiosa che merita il plauso di tutti. Coraggiosa anche perché portata avanti da ragazzi di Buona Volontà che si sono esibiti in ruoli di cui, i più per ragioni anagrafiche, non avevano la necessaria complessione, il trucco e parrucco hanno fatto quel che hanno potuto.
Nominiamoli questi bravi ragazzi: Manuel Giunta , Silvana Lanza , Margherita Malerba, Amedeo Amoroso , Salvatore Gabriel Intorre , Mirko Marotta Giorgio Piccione, Serena Giuffrida, Lisa Angileri , Samuele Moschetto , Ismaele Buonvenga, Bernadette Giunta , Antonio Giunta , Damiano Scavo, Marco Laudani, Claudio Scalia, Riccardo Zappala’, Francesco Rizzo, Anna Rita Prezzavento, Chiara Compagnini, Marco Musmarra, Sabrina Rondine, Andjela Bizimoska, Maria Rosa Judica, Roberto Costantini che sono stati attori, scenografi, costumisti, direttori delle luci, aiuto registi, direttore di scena, danzatori e hanno dato generosamente ed entusiasticamente il meglio di sé per uno spettacolo gradevole alla vista e all’ascolto, dando una prova di gioco di squadra formidabile.
Di notevole valore la performance di Liliana Biglio nel ruolo di Irina la madre non madre di Kostja il protagonista attorno al quale si dipana la storia, l’unica attrice professionista del formidabile gruppo che ha dimostrato, ancora una volta, che – al di là della sua frequentazione assidua del teatro leggero – è una attrice di sicuro spessore drammatico e di belle speranze.
L’anima di tutto è stato il regista Sergio Campisi che nel biglietto di sala enuncia con rara chiarezza la Weltanschauung della sua creazione artistica.
Colà, egli si iscrive apertamente a quel gruppo di interpreti che vedono Speranza e Prospettiva di Salvezza nell’intera opera cecoviana e tutti gli inserimenti e le novazioni sul testo originale del “Gabbiano” introdotti, tendono a corroborare questa visione salvifica: ad esempio l’introduzione d’un numero di danza di un ballerino/gabbiano o il monologo finale che vorrebbe aprire i cuori alla Speranza.
Ora, temo che questa visione tenda più al “dover essere” piuttosto che all’ ”essere”.
Bisogna ammetterlo Cechov è scioccante, rivoluzionario a fine ottocento e rivoluzionario anche oggi perché nega la Speranza e il lieto fine che sono, non solo idea forza dell’ideologia cristiana, ma l’aspirazione potente che vive in ciascuno di noi, retaggio animico di un infantilismo genetico che ci aiuta a sopravvivere a noi stessi.
In tutta l’opera cecoviana non c’è traccia di speranza. I suoi personaggi sono e restano disperati e la Pace la raggiungono solo attraverso la morte fisica.
“Moriremo con mansuetudine (…) noi riposeremo, riposeremo, riposeremo.” sussurra Sonja allo Zio Vanja nella scena finale dell’opera omonima; “Anche la vita se n’è andata ed io non l’ho neanche vissuta” è la battuta del vecchio servitore morente Firs nel finale del “Giardino dei ciliegi”; e nel “Gabbiano” Kostja si uccide, come tutti i suicidi perché la Speranza “ultima dea” l’ha abbandonato e gli altri muoiono con lui, soffocati dal loro egoismo, dalla loro inadeguatezza, dai loro fallimenti, morti in spirito senza speranze evangeliche all’orizzonte.
“Il Gabbiano” è aspirazione al bello e al bene, alla felicità, ma questa Bellezza, questo Bene, questa Felicità resteranno sconfitti dalla rassegnazione, dalla disperazione, dal fallimento, dalla Vita stessa e trovano ristoro in un cupio dissolvi, questo sì, liberatorio.
In parole povere, l’interpretazione trifasica tutta cristiana: peccato – grazia – salvezza, in Cechov semplicemente non c’è. Non c’è.
Nel famoso monologo di Sòrin, Il vecchio Consigliere di Stato, fa il bilancio impietoso dei suoi fallimenti e proclama il suo struggente e vano desiderio di vivere alla veneranda età di 62 anni, al suo interlocutore che minimizza e lo induce a vedere il bicchiere mezzo pieno, egli dice: “Lei parla così perché è sazio” sazio della Vita intende, chi ne ha fame non può essere ottimista. E’ una battuta tremenda che chiude i cuori alla Speranza.
Per Cechov, Cristo/Umanità non scende dalla croce.
Tutto questo s’è visto chiaramente, nonostante gli addolcimenti, per tutto lo spettacolo; per questo diamo un plauso al regista e alla compagnia d’essere stati fedeli al testo e, per quanto possibile, alla sua ambientazione.
Una operazione culturale molto positiva questo “Gabbiano”, ha “costretto” benignamente il popolo festante degli spettatori a riflettere sulle drammatiche vicende rappresentate e un po’ su se stessi.
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