Parigi, o cara/o noi lasceremo,
La vita uniti trascorreremo:
De’ corsi affanni compenso avrai,
La mia/tua salute rifiorirà.
Sospiro e luce tu mi sarai,
Tutto il futuro ne arriderà.
Eccolo il futuro!
Sintetizzato, come meglio non si poteva, da Francesco Maria Piave e consegnato al genio musicale di Giuseppe Verdi che ha donato, per bocca di Alfredo, all’Umanità una delle arie più belle della sua Traviata.
Il futuro è una parte della tripartizione, assieme al passato e al presente, del tempo che è un accidente tutto terrestre.
Gli scienziati ce lo spiegano da circa 120 anni e noi, generalmente ne comprendiamo la meccanica, ci dicono che si accorcia, che potrebbe anche scomparire, ma il perché ci è pressoché sconosciuto.
Circoscritto così li tempo alla percezione che ne hanno piante, animali e umani, non resta che interrogarci sulla parte di tempo che è da venire, il futuro appunto; il suo valore, il senso che ha per noi umani.
Una delle mille risposte che ciascuno può darsi ha fondamento nel passato e nella evoluta capacità raziocinante della Specie umana.
“Dal dì che nozze, e tribunali ed are dier alle umane belve esser pietose si sé stesse e d’altrui …”, da quel dì, cioè da quando abbiamo elaborato (unica specie animale ad averne coscienza) il concetto, il sentimento della Speranza.
Sentimento tutto cristiano che ha spazzato via il principio di realtà elaborato dagli antichi greci da cui discende un corollario essenziale: gli uomini sono mortali, punto.
E invece è venuto il cristianesimo con la sua triade peccato/redenzione/salvezza copiata dalla scienza realtà/studio/progresso, copiata dalla medicina: malattia/cura/guarigione, copiata dalla psicanalisi: disturbo/terapia/guarigione, copiata dall’ideologia comunista: capitalismo/dittatura del proletariato/giustizia e libertà; tutti cristiani a loro modo, adoratori della Speranza candidati alla disperazione.