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Lunghi applausi per “A torto o a ragione” di Ronald Harwood per la regia di Giovanni Anfuso allo Stabile di Catania

Lunghi applausi  per “A torto o a ragione” di Ronald Harwood per la regia di Giovanni Anfuso allo Stabile di Catania

In questi giorni si rappresenta alla sala Verga del Teatro Stabile di Catania, per la regia di Giovanni Anfuso,  la nuova produzione del Teatro Stabile di Catania, della Fondazione Teatro di Roma/Teatro Nazionale e del Teatro Vittorio Emanuele di Messina, “A torto o a ragione”di Ronald Harwood; si tratta dell’intrigante storia di Wilhelm Furtwangler (1886-1954), famoso direttore d’orchestra, a detta di tanti il più grande di tutti i tempi, arrivato al culmine del successo proprio nel momento in cui Adolf Hitler prendeva il potere in Germania. Piuttosto che andare in esilio, come molti dei suoi colleghi, Furtwangler scelse di continuare la sua carriera nella Germania del Fuhrer, per questo alla fine della guerra, verrà accusato di essere stato nazista.

Il testo di Ronald Harwood è la drammatizzazione dell’inchiesta, che si svolse nel 1946 a Berlino, nella zona occupata dagli americani.

Non si conoscono con precisione né i motivi né i metodi messi in atto dagli investigatori; sappiamo però che Furtwangler subì una serie numerosa di interrogatori.

È una storia di chiaroscuri: Furtwangler è  stato un criminale o solo un artista? Qual è il valore dell’arte al servizio della politica? Arte e politica possono restare separate e seguire vie parallele e contemporanee?

Possono convivere guerra e grande musica? È giustificabile oppure no voltarsi dall’altra parte? Il torto e la ragione non sono così netti e separati? C’è una via mezzana o no?

Agli spettatori e ai nostri lettori “l’ardua sentenza”!

E’ questo l’interrogativo consegnato, al calar della tela, alla platea ancora incredula e cogitabonda, dalla monumentale cattedrale gotica disegnata da Giovanni Anfuso in forma di piecès, dai suoi attori e dai suoi collaboratori.

Come un Maestro architetto medievale Anfuso ha confezionato un manufatto così carico di particolari, tra grandi, medi e piccoli, molti originali, qualcuno unico; tale da confondere il povero critico che stenta a trovare un capo spendibile come incipit dalla matassa narrativa e di senso proposta: si tenterà, a beneficio dei nostri lettori, di rubargli il compasso per raggiungere – a caso – solo qualche punto dello spazio animico e teatrale ch’egli ha rappresentato.

L’intera rappresentazione ha un’unica scena ricchissima di particolari e di citazioni d’arte e si svolge in un deposito di opere d’arte requisite in tutta Europa dai nazisti e in attesa di essere restituite ai proprietari che, da se stessa annuncia, la materia del contendere, cioè il valore dell’arte come strumento di vitalità del genere umano; arte che, per contrappasso, verrà mal trattata e vilipesa per tutto il tempo dall’inquisitore statunitense.

“Ho inteso offrire al pubblico, a me stesso e a tutti gli artisti di qualsiasi arte artefici – mi si perdoni il calembour – una lunga riflessione sul nostro lavoro, sulla sua funzione e sulla libertà ch’esso deve godere nel realizzarsi. Ho inteso altresì stigmatizzare il disprezzo che per l’arte manifesta il Potere quando questa non asseconda i suoi fini”, ci dice Anfuso che il testo ha rivisto e ridotto.

In effetti, l’opera di Harwood e la rappresentazione che s’è vista l’altra sera s’inserisce, a pieno titolo, in quel main stream teatrale e artistico che insegue l’utopia della funzione  educativa e di formazione globale per l’uomo del Teatro: una sorta di Paideia per una cultura dell’Umano nel senso più elevato del termine.

“Parafrasando Dostoevskij” sottolinea Anfuso, “sono convinto che è l’Arte che salverà il mondo”; e come dargli torto!

Viviamo in un’epoca che vede la scuola e la famiglia abdicare sempre più frequentemente al loro compito essenziale di educare al sentimento, al riconoscimento, alla cura dell’emozione, sicché l’arte e, nella specie, il Teatro possono svolgere un ruolo ancora vitale, in tal senso, per le nuove generazioni.

In questa visione si inserisce la “preghiera”, il richiamo, quasi “l’urlo” dei Maestri Furtwangler e del suo alter ego Anfuso ai critici teatrali affinché essi si sforzino di essere un pungolo, uno stimolo leale ancorché senza sconti agli artisti, così da assumere anch’essi il ruolo di difensori del Bello e dell’Arte.

Si accennava dianzi alla ricchezza dei particolari; ebbene, non visti, ci siamo avvicinati al palcoscenico col teleobiettivo e abbiamo riscontrato che gran parte della scena e degli strumenti di scena sono perfette riproduzioni dei manufatti autentici di ottant’anni fa, perfino i timbri, le mostrine e i fregi militari non sono buttati li a caso, ma sono quelli propri dei reggimenti e della unità militari cui appartengono i personaggi; l’Adagio della settima sinfonia di Bruckner che fu trasmessa dalla radio tedesca alla morte di Hitler, che si sente in sottofondo, non è una qualsiasi riproduzione, ma proprio quella che fu trasmessa in quell’occasione e diretta dallo stesso Furtwangler: si tratta di preziosità nelle quali è raro imbattersi e delle quali occorre rendere merito ad Andrea Taddei (scene), Isabella Rizza (costumi), Paolo Daniele (musiche) e alla pignoleria dello stesso Anfuso.

Ultimo, ma non per importanza, mette conto di riferire dell’atroce critica del Potere che l’intera piecès  drammaticamente testimonia. Incarnato dal Maggiore dell’Esercito degli Stati Uniti Steve Arnold, l’archetipo del Potere dispiega tutta la sua forza disumana improntando la sua azione alla Tecnica che governa quest’ultimo spicchio di antropocene in cui ci tocca di vivere.

La Tecnica, contrariamente a quanto si possa credere, non è la complessità dei telefonini o del computer o di altre diavolerie tecnologiche, ma è l’ossequio alla dea Efficienza e al dio Risultato: nel raggiungere un risultato, i sentimenti, la ragionevolezza, la pietà, i limiti fisici e quant’altro di umano sono soltanto ostacoli da rimuovere nel caso si presentino.  Se ci pensaste un attimo in più, è agghiacciante.

Il Colonnello Franz Stangl, direttore del campo di sterminio di Treblinka interrogato su cosa provasse ad essere a capo di una macchina di morte dichiarò:” Io non ero pagato per provare qualcosa, io ero incaricato di eliminare 3.000 persone entro le undici del mattino e 5.000  entro le cinque del pomeriggio, tutti i santi giorni”. Le persone erano per lui numeri, un montepremi, esattamente come per il Maggiore Arnold: gli avevano ordinato di condannare il Maestro Furtwangler, ad ogni costo; e con ogni mezzo doveva raggiungere l’obiettivo.

La Tecnica domina e sovrasta qualsiasi debolezza umana; Furtwangler alla fine sopravvivrà  all’odio del Potere e del suo persecutore; tuttavia, i sacerdoti della Tecnica le sue debolezze gliele rinfacceranno finché vivrà e su di loro si abbatterà per sempre, come un macigno, la sentenza del Vangelo secondo De Andrè: “lo sanno a memoria il diritto divino e scordano sempre il perdono”.

“Increduli e cogitabondi” per tanto vigore narrativo e ricchezza di stimoli alla riflessione civile e intima non potevamo non rendere merito e omaggio all’eccezionale compagine attoriale: Stefano Santospago (Wilhelm Furtwangler), attore di lunghissima esperienza che ha ben sottolineato il pendolo interiore del maestro tra i sensi di colpa e il vanto del proprio valore;  Simone Toni (Maggiore Steve Arnold), ha magistralmente dato vita alla rozzezza di tutti i poveri di spirito, dilaniati tra la comprensione della realtà attraverso i sensi e la difficoltà di venirne a capo;  Giampiero Cicciò (Helmut Rode), pressoché un perfetto “borghese piccolo piccolo”, acrobata del cerchiobottismo universale; Liliana Randi (Tamara Sachs), attrice di forte spessore drammatico, allieva di Orazio Costa e Mario Scaccia, che ha donato un cammeo di limpida bravura;  Luigi Nicotra (Tenente David Willis), impacciato e ossequioso come ogni pivello di buon cuore ha da essere e Roberta Catanese (Emmi Straube), impeccabile, come tutte le segretarie che sanno stare al loro posto e vorrebbero non starci.

Tutti,  per tempi scenici, espressione, caratterizzazione, puntualità, dizione e passione hanno rasentato una pienezza recitativa tale che … sembrava che non stessero recitando.

A completare l’ottimo cast tecnico Antonio Rinaldi alle luci e Lucia Rotondo aiuto in regia.

Foto di Antonio Parrinello

 

 

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