Nel 1933, anno in cui Adolf Hitler venne eletto Cancelliere di una Germania in cerca di riscatto dopo le devastanti conseguenze della Prima Guerra Mondiale, Mein Kampt, “La mia Battaglia” – sino a quel momento diffuso in poche copie – raggiunse una diffusione enorme, dal momento che il libro, considerato una bibbia laica, doveva essere presente nelle librerie di ogni tedesco che si ritenesse tale. Dettato all’amico di cella Rudolph Hess, nel periodo della incarcerazione dovuta al fallimento dei fatti di Monaco, il 9 Novembre del 1923, venne pubblicato nel 1925 e reca in sè le deliranti utopie che influenzarono il pensiero politico, sociale ed intellettuale dell’Europa, determinando la seconda guerra mondiale ed il sacrificio di milioni di vite umane.
“…In un diario, l’abbozzo di una follia…”. Trasferitosi da Branuau am Inn – dov’era nato – a Linz, dunque a Vienna nel 1906, alla fine della scuola, partecipa per ben due volte all’ammissione all’Accademia delle Belle Arti venendo respinto; vive in ricoveri e sistemazioni di fortuna, mangia alle mense della Carità, tirando su qualche soldo grazie alla vendita dei suoi quadri acquistati per aiutarlo da ebrei, uno dei quali un giorno, vedendolo mal vestito ed infreddolito, gli regala il proprio cappotto. Lascerà la città di Vienna nel 1913. Quello che accade in quegli anni, rivela attitudine al bipolarismo nel giovane ed emaciato Adolf, dal momento che quotidianamente egli frequentava e si confrontava con cittadini ebrei e allo stesso tempo prestava un morboso ascolto alle sommesse e via via sempre più rumorose teorie della superiorità della razza ariana, argomento largamente presente nei dibattiti di giornalisti e politici.
Il sospetto che le sue origini fossero ebree viene sovente avvalorato dalla omertà che egli stesso vi pose a riparo; la probabilità è possibile sia da parte della nonna paterna (“Schicklgruber”) che del nonno; infatti, in Polonia, Lituania, erano presenti nuclei di ebrei che portavano i cognomi “Hiedler” e “Hüttler” dai quali “Hitler” deriverebbe, essendo medesima l’origine. Di scadente preparazione scolastica (aveva conseguito la sola licenza elementare), il giovane Adolf è comunque un lettore compulsivo ed un curioso. Già orfano di padre, all’età di diciannove anni perde la madre che considerava “la sua stella polare”.
“…Una grande storia d’Amore. Hitler e il suo Ebreo. Un caso orribile….”. George Tabori nasce a Budapest nella primavera del 1914; di origine ebrea da parte di padre (morto ad Auschwitz), riesce a sfuggire una prima volta, rifugiandosi col fratello al Londra, lavorerà come corrispondente di guerra per la BBC. Vive fra l’America e l’Europa, dove si trasferirà definitivamente (nella Germania Occidentale) nel 1969 occupandosi di teatro. Muore a Berlino nel 2007.
Nel 1986, scrive Mein Kampt, attingendo dunque agli esordi di un giovane ed arrogante Hitler, pieno di rabbia e supponenza, e facendo riferimenti ferali a ciò che da lì a poco sarebbe accaduto… Viene rappresentato l’anno successivo al Burgtheater di Vienna, come evidente spregio avverso la elezione alla presidenza austriaca di Kurt Josef Waldheim, militante delle Forze Armate Tedesche di cui mai si riuscì a dimostrare coinvolgimenti negli eccidi nazisti. Nel libro, la prefazione a cura di Moni Ovadia.
“…Civiltà moribonde e votate al suicidio…, democrazie in agonia…”. 21 febbraio 2019, Nicola Alberto Orofino debutta con Mein Kampt Kabarett e racconta la storia al modo che deve essere, fedelmente. In scena, Francesco Bernava, l’ebreo Lobkowitz che gioca ad essere Dio, “nell’attesa” di capire di esserlo davvero, cucina per gli ospiti e tiene in ordine la fredda e scarna pensione; Luca Fiorino, l’ebreo Schlomo Herzl che è “in attesa” del Messia, della rivoluzione buona in cui a farla da padrone siano i buoni sentimenti; Alice Sgroi, la vergine Gretchen che “attende” di smettere di essere una proiezione della intima fantasia di Scholmo per diventare Amore reale e concreto; Giovanni Arezzo, giovane e supponente Adolf, “nell’ attesa” di divenire Hitler…; Egle Doria, la elegante Morte “nell’attesa” di compiere sistematicamente il proprio ufficio, consulta un taccuino con segni rossi…
L’ allestimento scenico di Cristina Ipsaro Passione è magnifico: è riuscita a conferire dignità agli stracci, compostezza al disordine, lasciando il massimo margine ai bisogni, alle necessità che vanno al di là della povertà. Una povertà dove trovano spazio e ragione d’essere i sogni e i libri di Scholmo, gli acquarelli sbilenchi come il riporto sulla fronte di Adolf, la pazienza e le stoviglie di Lobkowitz, l’amore di Gretchen, la necessità della Morte. L’allestimento scenico è stupendo e propositivo, assolutamente. Nella dettagliata semplicità, la scenografa è stata brava a chiarire la sopravvivenza e la sopraffazione, ad allineare le poche cose rimaste, nell’attesa che tutto si perdesse. Il look degli attori curatissimo e pertinente, (sartoria, Grazia Cassetti).
“…nel cuore di ogni scherzo si nasconde un piccolo olocausto…”. Il regista ha codificato il messaggio, alleggerendone la ferocia. Lo fa subito, dalla locandina (Maria Grazia Marano) che si presenta già estremamente schietta, abbastanza nera ed abbastanza lineare, aggiungendo “Kabarett”. E perchè lo fa? La satira nasce sul palcoscenico dei cabaret ed in quel periodo a Vienna e un po’ dappertutto, ce n’erano parecchi: nell’insolenza, il tentativo di denuncia, lo sconto alla ferocia. Molti ebrei lavoravano in questi locali e non stava bene non adempiere al volere del re come solitamente a corte faceva il giullare che prendeva in giro il sovrano solo in base ad un copione dal sovrano stesso stabilito. Così, se ne decide la chiusura ove non si era riusciti a censurare.
“…tu la chiami guerra e non ti spieghi perché…”. Hitler non lo commise l’errore di Cesare che nutriva fiducia verso coloro di cui si era circondato ed anziché ricevere prolungati tributi, nell’ascesa al potere venne tradito. Hitler alla folla non diede spazio, solo ordini perché era conscio che soltanto così facendo avrebbe ottenuto maggiore sottomissione rispetto al suo programma di purificare la razza, eliminare le diversità, disfarsi delle disabilità. E la folla che si chiamasse esercito e popolo, lo seguì sino all’estremo sacrificio che comportò il complicato progetto di annettere i territori dell’ Europa orientale. Ed infine, la disfatta ebbe luogo senza capirne le ragioni.
“…speranze insensate che riducono ancora di più la libertà…”. Orofino raccoglie l’intenzione dello stesso Tabori che scriveva la ovvietà delle bassezze umane, palesando con la satira l’assurdità di un sospetto becero, sebbene mai provato come quello che avvolgeva un personaggio ( Waldheim ) che anziché essere controllato, venne eletto a ruolo istituzionale. Orofino riapparecchia la liturgia originale, facendo buon uso della satira, traducendo, ad esempio in buffa coreografia un gesto, un perentorio saluto sulle note di un motivo anni ’80, in fondo nemmeno poi così anacronistico, dal momento che Mein Kampt di Tabori è del 1986!
Mein Kampt (Kabarett) è un lavoro ambizioso, frutto di un’idea brillante derivata da un testo prezioso ed attuale che risuona come una campana a morto perché se è vero che la memoria è importante, è altrettanto vero che il delirio di un singolo funziona da gigantesca gomma da cancellare di milioni di pagine di storia. Cos’è un libro senza memoria, senza uno scopo palesato nell’evoluzione narrativa ed il motivo per cui la storia si dice? Solo pagine bianche e vuote da riscrivere. E perché se ciò che potrebbe accadere è già stato scritto? Nicola Alberto Orofino ci costringe a riprendere i libri, quelli scritti dagli uni e dagli altri, quelli scritti da chi ha vinto e da chi ha perso perché alla fine a perdere siamo tutti, quando alla conoscenza si sovrappone l’intolleranza. Erano quelli anni di grande regressione economica alla quale nemmeno le nazioni che non erano uscite sconfitte dal primo conflitto bellico erano rimaste estranee; guardandosi intorno si cominciò a spingere lo sguardo verso quella parte dell’Europa ricca di materie prime e l’ebreo errante e privo di divise che sino a quel momento era ritornato utile perché finanziariamente ineccepibile, adesso andava annientato per la stessa ragione. Hitler, dal profilo psicologico certamente singolare, altri non era che la coscienza primitiva e vile dell’uomo comune che parlava a gran voce, ma in fondo al comando di interi manipoli di ipocriti.
Mein Kampt Kabarett di Orofino, lavoro accurato e studiato in ciascun dettaglio, bello da essere a lungo replicato, tanto da essere già stato rivisto da alcuni presenti al debutto. Sul palcoscenico, a palesare e rendere l’efficacia, cinque blasonati attori, bravi e perfetti: Giovanni Arezzo, Francesco Bernava, Egle Doria, Luca Fiorino ed Alice Sgroi, ciascuno impegnato a tracciare il proprio ruolo con lavoro, impegno e passione. Altrimenti Bernava/Lobkowitz non potrebbe essere tanto vicino all’essere uomo con la pazienza di Dio; Fiorino/Shlomo non incanterebbe letteralmente con le sue invocazioni estreme alla fantasia più necessaria; Arezzo/Hitler non sarebbe mai stato tanto idoneo al ruolo perché realistico e scremato da ogni caricatura; Sgroi/Gretchen non possederebbe il candore di un angelo devoto e protettivo; ed infine Doria/La Morte cieca non avrebbe quell’incedere elegante nella voce e nell’andatura…la classe indiscutibile dell’attrice conferisce al personaggio una strana bellezza magnetica.
Orofino ci consegna per centoventi minuti uno studio accurato, senza spigoli, complesso ma privo di didascalie perché carico di senso. Il risultato finale dell’ ennesimo lavoro “sopra le righe” del giovane regista catanese denuncia un impegno partito da lontano e che è palese, che non trascura alcun dettaglio. Tanto meno quello di dire raccontando che l’umanità, sia essa contemporanea che di epoche remote, non perde le sue costanti; dunque, solo tenendo viva la cultura si può coltivare la speranza che sottende ad ogni memoria che il Male non sia più…
Bravissimi tutti.
MEIN KAMPF KABARETT
Di George Tabori
Regia Nicola Alberto Orofino; Assistente Gabriella Caltabiano
Con Giovanni Arezzo, Francesco Bernava, Egle Doria, Luca Fiorino, Alice Sgroi
Scene e costumi Cristina Ipsaro Passione; Foto di Gianluigi Primaverile
Organizzazione Filippo Trepepi
Produzione Mezzaria Teatro
Al Teatro del Canovaccio di Catania fino al 3 Marzo
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