Elio Gimbo è uno di quei registi che potrebbe essere paragonato all’artigiano estremamente specializzato che lavora lungamente alla forgiatura e alla confezione di un manufatto: esperto, studioso, attento, è riuscito nelle ultime due stagioni di Fabbricateatro, “Amici della Sala Di Martino”, a portare in scena lavori che si ricordano, densi di emozione, ricercati nei dialoghi, adattabili al momento che è; come Giano bifronte, Gimbo guarda indietro ed al futuro contemporaneamente dando nuova coloritura ai classici di ogni tempo.
Dopo “La Bottega del caffè”, “Alla fine del tempo”, “Sperduti nel Buio” (del Professore Nino Bellia), “Cose di Sicilia” (di Cinzia Caminiti Nicotra), “Il dott. Di Martino è desiderato al telefono”, adesso “Il Caso K” tratto da “Il Processo” di Frank Kafka. Il regista catanese si avvale della collaborazione di una squadra affiatata che perciò si è dimostrata vincente: Sabrina Tellico, Daniele Scalia, Fiorenzo Napoli, Bernardo Perrotta e Maurizio Giordano, Nicoletta Nicotra e Cinzia Caminiti. Quest’ultima, da tempo impegnata nella ricerca e nella classificazione dei canti della tradizione siciliana, costituisce un valore aggiunto di preziosissimo completamento.
Adattamento e regia di Elio Gimbo, produzione Fabbricateatro, dall’1 Marzo, alla Sala Giuseppe Di Martino di Catania. In scena Antonio Caruso, Cinzia Caminiti, Alessandro Chiaramonte, Daniele Scalia, Barbara Cracchiolo, Gianluca Barbagallo, Alessandro Gambino e Babo Bepari. Scena di Bernardo Perrone, costumi e canti di Cinzia Caminiti, trovaroba Mario Alfino, luci Simone Raimondo, aiuto di sala Nicoletta Nicotra, auditore Salvo Foti.
Lo spettacolo verrà replicato (feriali ore 21.00 e domeniche ore 18.00) per l’intero mese di Marzo (altre repliche il 22, 23, 24, 29, 30 e 31),
Franz Kafka nasce a Praga il 3 luglio del 1883 (e muore a Kierling, in Austria, il 3 giugno del 1924), da padre ebreo e madre boema. Le condizioni agiate della famiglia gli consentono di frequentare studi di ottimo livello e di conseguire una laurea in Giurisprudenza. Comincerà a lavorare in una società di assicurazioni, ma con disappunto volendo dedicare il proprio tempo a scrivere piuttosto che a svolgere un lavoro affatto creativo. Padre piuttosto anaffettivo, tre sorelle deportate ed uccise nei campi di concentramento, un fisico flagellato dalla tisi ed una psiche tormentata dallo strazio di un periodo storico infame e da un condizionamento dovuto alla difficoltà di riconoscersi in un corpo minuto ed irrisolto. Autore il cui valore delle opere lo conclama in tutte le epoche come il più grande conoscitore delle frustrazioni familiari e sociali, adopererà ragionamenti che si svilupperanno in un’iperbole fantastica e magica. Infatti, la natura e lo spirito dei suoi scritti lo classificheranno come “esponente del romanzo esistenzialista e del realismo magico”. Quella di Kafka è una esistenza fatta di controlli, familiari e sociali che si adoperano non per rendere felice e libero l’uomo, bensì per condizionarlo sino a farlo sentire continuamente “sotto processo” ed in trappola. Basterebbe citare solo tre delle sue opere per comprenderne il senso, ovvero: “Lettera al padre”, “Metamorfosi” e “Il Processo”.
Quest’ultimo diviene oggetto di studio, analisi e trasposizione per la Compagnia Fabbricateatro che da anni ormai pone l’accento sul bisogno di comunicare il senso delle umane cose affinché esso non si perda nella voragine delle pieghe della superficialità e della distrazione. “Il Processo di Kafka”, diviene dunque “Il Caso K” di Elio Gimbo: l’attore Antonio Caruso è il signor K che improvvisamente un giorno si sveglia senza più il diritto in casa sua di ricevere la colazione dalla propria governante e diviene oggetto d’indagine per Polizia e Magistratura. In una articolazione da incubo, la vita del signor K viene risucchiata in un tunnel fatto di sbarre e rumore, di funzionari mezzi uomini e mezze caricature, senza il conforto dell’appello ad una Morale, adesso ribaltata ed accomodata. Codici “verbalmente” riscritti, udienze rinviate, innumerevoli colloqui con innumerevoli rappresentanti della Legge, tutti circondati da un’aura di sospetto attorno alla quale si consumeranno i diritti dell’uomo. La sopravvivenza genererà il compromesso e nessuno sarà più se stesso, ma una pallida immagine scolorità come quelle foto messe agli atti; gli atti di processi per colpe mai commesse, per reati amplificati. Il pregiudizio? impacchetterà tutto: colori, linguaggi, religioni, stati di salute, parole scritte al di sopra della comprensione perciò considerate messaggi folli e pericolosi.
La scenografia di questo lavoro è l’istantaneo approccio per lo spettatore che, prendendo posto prima dell’inizio della rappresentazione, si trova letteralmente coinvolto, senza capire se al di là o al di qua della vicenda. L’istallazione scenografica ha costretto la modifica della sala, disponendosi anche a metà della platea; gli spettatori circondano l’inconsueto ambiente e gli attori passano in mezzo: la suggestione comincia da subito. Come da subito è chiaro che basta poco per finire al di là di quella linea di demarcazione quando il confine fra il Bene ed il Male, fra diritto dell’uomo libero e colpa del reo diventa una sbavatura e nulla più. Il messaggio è chiaro: ci vuole davvero poco a diventare oggetto privo di qualità quando il Diritto Soggettivo viene inghiottito e sputato dall’arbitraria facoltà di agire. Ma il disastro peggiore risiede nell’involuzione della dignità umana che privata e priva di indispettite reazioni, si adeguerà gloriandosi infine della condizione di attesa in cui viene messa a giacere la sua intera esistenza.
Antonio Caruso (signor K) è un attore magnifico dal volto che riflette; in grado di assumere qualsivoglia espressione, è anche dotato di un timbro di voce che riesce a gestire attraverso le intonazioni, le flessioni più varie, facendole assumere le stesse espressioni del suo sguardo. Chi ha avuto il bene di vederlo in altri lavori (Al servizio del potere, La Fabbrica del Consenso, Micio Tempio vietato ai minori, Fu Mattia Pascal, per citare i più recenti), si è potuto rendere conto di come egli sia perfettamente in grado si sintonizzare voce e sguardo modulandoli sul necessario registro espressivo; è uno di quegli attori in grado di assumere in sé l’intero contesto creando fascinazione e malia. La medesima esperienza l’ho vissuta allo Stabile di Catania, vedendo recitare Michele Riondino in “Il Maestro e Margherita” di Michail Bulgakov.
Gianluca Barbagallo, Babo Bepari, Alessandro Chiaramonte, Barbara Cracchiolo, Alessandro Gambino e Daniele Scalia, bravissimi nei loro ruoli multipli, capaci di cambiare d’abito come caratteristiche: in ciascun personaggio da loro interpretato sanno essere in grado di fornire voce, postura, sguardo sempre diversi, considerando che i tempi per uscire ed entrare dai e nei personaggi sono assai brevi. Ribadisco: Bravissimi!
Cinzia Caminiti, straordinaria anch’ella nel passare dal ruolo della governante a quello estatico della poetica assistente in tutù del pittore, porta in scena l’ennesimo protagonista, ovvero la canzone. Da storica classificatrice qual è, ha effettuato una selezione di canti che assumono in sé il triplice compito di fungere da colonna sonora, da “narrativa” e, dicevo da impalpabile protagonista. L’attrice ha scelto:
Wiegala Wiegala che è una ninnananna scritta da Ilse Weber una poetessa e scrittrice ebrea di canzoni e storie per l’infanzia. Deportata nel campo di concentramento di Aushwitz, Ilse lavorò come infermiera per i piccoli detenuti ai quali insegnò canzoncine e raccontò favole per distrarli; Ale Brider (da canzoni contro la guerra) è considerata un po’ come una sorta di “Internazionale” ebraica per il suo carattere di fratellanza e pace, ed è sicuramente la canzone più nota in tutto il mondo in lingua yiddish; Morsi cu morsi è l’unico canto di carcere anonimo di cultura popolare siciliana presente nello spettacolo. Esso fu trovato scalfito nei muri della Vicaria, antico carcere palermitano; Korakhanè (a forza di essere vento) è un antico canto rom tratto dall’album “Anime salve” di Fabrizio De Andrè dedicato alle minoranze; Vai bambino vai vedrai (canto dell’oppresso) di Francesca Gagnon e Inti-illimani; Djlem djlem è l’inno del popolo gitano. Le note del canto ebraico Gam Gam Gam per i saluti di commiato dal pubblico della compagnia.
“Non si accetta di curare le musiche di uno spettacolo come “Il Processo”, non si accetta di elaborarne i canti di scena senza avere la consapevolezza di dover entrare a piene mani dentro il dolore. Il nostro è un tempo disgraziato, un tempo disumano, un tempo già vissuto e per questo ancora più triste. La ricerca di queste canzoni mi ha riportato nei luoghi e nel tempo di una Storia che non doveva più ripetersi e in un attimo, invece, mi sono ritrovata qui e ora con la certezza di una sofferenza piantata e cresciuta come la gramigna. Si chiama oppressione questa pianta maledetta ed è una pianta mortalmente velenosa e infestante. Questi canti li ho cercati avidamente e quando li ho trovati ho pianto vere lacrime, li ho messi nel cuore per cantarli ancora, per urlarli, per tramandarli a chi ne avesse nel frattempo perso la memoria e spero, nel riproporli, di dare le stesse emozioni che provo io. La condivisione del dolore è come la condivisione della gioia: fa bene all’anima!. Questi canti li dedico a Babo (uno degli attori n.d.r.) e ai suoi fratelli.”Cinzia Caminiti
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