Nicola Alberto Orofino non sceglie mai a caso la letteratura da cui trarre i propri lavori, perchè impone alle proprie riflessioni la necessità di contribuire alla diffusione del pensiero classico e dare luce ad aspetti emotivi ricorrenti che non abbandonano mai la storia dell’uomo in qualsiasi epoca.
Non estraneo ai classici shakespiriani, pone l’accento questa volta sul potere e l’ossessivo perseguimento di esso a mezzo dell’uso dei metodi più feroci, in cui non si risparmia neppure il sangue dei familiari. A quasi due anni dall’esordio, Orofino ripropone al Teatro Canovaccio, il ” Riccardo III” di Shakespeare, dramma storico, originariamente in cinque atti, scritto fra il 1591 ed il 1592, da cui il regista ha tratto un atto unico della durata di circa centoventi minuti.
Egli ha voluto raccontare una storia fatta di meschine ritorsioni, organizzate per sfociare puntualmente nel sangue, contestualizzando un periodo che nella realtà storica ha occupato circa un biennio (tanto è durato il regno di Riccardo III); ha voluto rappresentare la certezza che, laddove l’uomo è stato presente, si sono composti quasi sempre l’odio, l’efferratezza, la soppressione fisica dell’altro. Per farlo ha studiato dunque la psicologia e l’operato di un sovrano inglese certamente non ricordato per essere stato meno che empio, Riccardo III, l’ultimo discendente degli York e la cui morte in battaglia a Leicester mise fine alla lotta per la corona, così detta “Guerra dei Roses”, aspro scontro per il casato combattuto dagli York e dai Lancaster, due diversi rami dei Plantageneti, dal 1455 al 1485 che recavano come simbolo due rose, una di colore rosso e l’altra bianco. Dopo, ebbe inizio il regno della Dinastia dei Tudor, col Re Enrico VII d’Inghilterra.
Riccardo III, nel corso della propria adolescenza aveva contratto una “scoliosi idiopatica” la quale, in realtà poteva essere camuffata dagli abiti. L’atteggiamento della colonna vertebrale non comprometteva i suoi movimenti al punto che egli risulta essere stato un elegante danzatore e abbastanza disinvolto sul campo di battaglia. Sembrerebbe così che il Bardo dell’Avon (che scrisse una nutrita letteratura sotto capitoli diversi, prestando sempre attenzione all’evoluzione del teatro legato ai momenti sociali e culturali) non avesse a ben volere le modalità con cui il potere veniva gestito all’interno delle casate reali nelle quali era raccomandabile guardarsi continuamente le spalle. Si soffermò sulla figura di Riccardo III, proprio perchè fu l’ultimo sovrano dello scontro trentennale fra le dinastie dei Roses e lo rappresentò aggravando volutamente i difetti fisici, quasi come a voler concentrare su di lui tutte le storture del potere.
<<Io, che non sono formato per i sollazzi d’amore, né tagliato per contemplarmi compiaciuto in uno specchio; io che una perfida natura ha defraudato d’ogni armonia di tratti e d’ogni lineamento aggraziato, mandandomi anzitempo, deforme e incompleto, in questo mondo di vivi, solo per metà sbozzato e talmente claudicante e goffo che i cani mi abbaiano quando gli passo accanto arrancando; ebbene, io in questa zufolante stagione di pace non conosco altro piacere, per ingannare il tempo, che sbirciare la mia ombra al sole e intonar variazioni sulla mia deformità. Visto, perciò, che non posso fare il galante,in questi tempi dalla loquela ornata, ho deciso di fare il furfante.>>
Nicola Alberto Orofino recupera dunque da Shakespeare questa volontà di denuncia, mettendo dentro ad un contenitore grigio come i cieli inglesi nelle giornate più fredde e nebbiose tutte le brutalità che l’Uomo, in qualsiasi epoca, non si è mai fatto mancare. Rimalzano all’interno di esso le nevrosi, le gelosie, i rantoli, gli umori maleodoranti di persone che agiscono per e con il Male e di altre che lo subiscono, come di quelle che lo sfruttano celandosi sotto i pesanti mantelli regali. Si agitano personalità incompiute…E il dramma sarebbe triste e pesante, senza speranza di uscirne, soprattutto ogni volta che un’icona con un lumino viene aggiunta per contare i morti su una parete – che ricorda quelle avvilenti sequenze di mini loculi in certi cimiteri – se all’improvviso non si aggiungesse il colore di un brano musicale, di un oggetto, di una battuta un po’ sboccata, tutto scrupolosamente anacronistico!
Ribadisco anche in questa recensione il valore ideologico del teatro di Orofino, tendente sempre ad estrarre dalla dispersione del tempo il fatto in sè, al di là delle date e delle circostanze. Osservando la vicenda ciascuno spettatore può incardinare nella drammaturgia elencata la propria opinione, scrivere la propria didascalia in fondo ad ogni scena. Imparzialità che Orofino è riuscito a garantire anche in Mein Kampt, in cui sarebbe stato semplice e legittimo rischiare di tuonare con valutazioni personali. Quello che mi piace di questo regista, autore ed attore è proprio il rispettoso distacco con cui dice, con cui racconta, svelando ambiti storici che posseggono un pallido ricordo, ma che di stantio non hanno nulla se non il nostro ormai divenuto pigro approccio. Orofino induce lo spettatore a scrollarsi di dosso un po’ di questa polvere opaca che copre ogni volontà di conoscenza.
Scenografia essenziale fatta di sedie dorate con alte spalliere; abiti eleganti e semplici; pettinature e look adeguati; sovrano fra tutti i sovrani, l’impianto naturale del palcoscenico del Canovaccio che ricorda in un interno l’intera linearità delle costruzioni medievali.
Gli attori sulla scena fanno una grande fatica, gestendo anche il copioso sudore causato dai pesanti cappotti e dalle pellicce (ecologiche!) indossati; forse per ragioni funzionali oppure per richiamare la consuetudine vigente nel teatro all’epoca del drammaturgo inglese di non permettere alle donne di recitare, assumono diversi ruoli a prescindere dal sesso.
Gli attori sono interpreti tutti assai bravi: devo ammettere la mia attenzione rapita da Daniele Bruno e Raffaella Esposito e richiamata da Roberta Amato, di cui mi è molto piaciuta la carica espressiva del suo corpo; è stata brava nel rendere la rabbia triste e rassegnata della sofferenza causata dalla morte del figlio e del marito per mano di Riccardo.
Daniele Bruno presta il suo fisico mingherlino al personaggio del deforme re, contorcendosi nella postura e, cosa che mi ha maggiormente emozionata, riesce a far passare l’incoerenza del suo aspetto nei pensieri attraverso i quali in modo scriteriato si pone strisciante e pericoloso nella concatenazione di eventi che progetta ed attua. Ed il suo è il personaggio con maggiore spessore psicologico rispetto agli altri perchè trainante nella determinazione dei destini altrui.
Io lo avevo già amato nel ruolo dello studente sapientino e suggeritore di un altro lavoro di Nicola Alberto Orofino, “Sugnu o non sugnu”, con Francesca Vitale e Francesco Foti, che l’anno scorso aprì la rassegna di Palco-Off. E’ mia opinione che questo giovane talento possegga tutti i numeri per diventare un attore parecchio più che bravo, continuando a studiare e a calcare le scene, nella speranza di incontrare sempre registi generosi ed arguti.
Raffaella Esposito è una magnifica maschera di feroce ironia per dote personale: quasi un gioco da ragazzi per lei questa performance a sfaccettature multiple! Magnifica nel rendere senza eccessi il rantoloso turpiloquio che si ode all’inizio in toni sommessi, e nel conferire al dramma tutta la sua valenza: una famiglia reale, responsabile dei destini propri e dell’Inghilterra tutta, che deve fare buon viso ad una sorte che si fa strada in mezzo ai cadaveri, una sorte che trattiene con dita artigliate una corona, scippandola dalle teste legittime, che via via vengono staccate ed attaccate sulla parete, in un tardivo quanto mai ipocrita rito di cordoglio.
Orofino nel montaggio scenico riesce a dare configurazione anche alla musica che io non definirei “una trovata”, bensì una soluzione che possiede il compito di traghettare con folle tempestività il vecchio pensiero nel nuovo fatto che sempre storia è. Mi vorrei soffermare per un momento su una percezione che ho avvertito e che forse esula dall’intenzione del regista e si limita soltanto alla scelta stilistica: le canzoni cantate da Marylin Monroe (Bye bye baby, I Wanna Be Loved by You), accennate più volte, mi hanno fatto pensare al triste destino della povera attrice americana, bravissima e talentuosa, che rimase schiacciata ( forse ) degli enormi e pesanti volumi occupati dalla dinastia dei Kennedy…
I ritmi sono battenti, e perciò a volte in alcuni passaggi generano istanti di confusione (forse limiterei le uscite dal palco verso la platea). La crudezza vera e tipica di questo squarcio di storia è resa anche negli approcci intimi che certamente per un mio personale limite nella lettura degli stessi, potrebbero essere rivisti, sebbene non tutti: ad esempio, la presa prepotente da parte di Riccardo avverso la neo sposa Anna la trovo legittima.
Insomma, ogni locandina che preannuncia un lavoro di Nicola Alberto Orofino contiene già in sé la curiosità di andare a constatare “chissà questa volta cosa si è inventato!”. E raramente si rimane delusi.
A questo proposito, segnalo fra poche ore, “Delirio”, oggi e domani al Piccolo Teatro della Città di Catania, con la sua regia, appunto e l’interpretazione di Francesco Bernava ed Alice Ferlito, lavoro presentato nell’ambito della Stagione Teatrale che riguarda il Teatro Brancati
RICCARDO III
di William Shakespeare
Adattamento e regia di NICOLA ALBERTO OROFINO
Con Daniele Bruno (Riccardo III), Raffaella Esposito (Re Edoardo, la Regina Margherita e il sindaco di Londra), Lucia Portale (la Regina Elisabetta, Lord Hastings), Roberta Amato (Lady Anna); Vincenzo Ricca (Regina Margherita e Duca di Buckingham), come Carmelo Incardona (il duca di Clarence) e Alessandra Pandolfini (Edoardo). Gli stessi interpreti rivestono poi anche vari ruoli di frate, sicari, messi della morte.
Costumi Rosy Belloma; Luci Simone Raimondo; Foto di Gianluigi Primaverile;
Produzione Teatro del Canovaccio
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