Ad un giorno di distanza, la scorsa settimana ho goduto il piacere di assistere a due opere di Martoglio, per le quali non ho mai nascosto una particolare propensione, rappresentando egli il commediografo e drammaturgo dell’autentica sicilIianità, quello che continua a dare voce alle fasce più arretrate della società e a riposizionare “gli invisibili”. Innumerevoli definizioni sono state date dell’uomo che caratterialmente fu: la sua morte avvenuta in circostanze poco chiare e convincenti continua ad essere oggetto di valutazione. Martoglio è attuale, in ordine soprattutto al magnifico racconto che fece della sua Catania, dei quartieri più tipici, dei personaggi più bizzarri che erano una inesauribile fonte di studio e classificazione di ethos popolari. Ha reso immortali coloro che basta poco per dimenticare, ha fatto diventare letteratura lo stile delle famiglie di un’epoca ormai perduta e le tradizioni legate alla vita di quartiere; ha fermato sulle pagine i vocaboli più autentici della lingua parlata e scritta, tanto sdegnata per anni, assurta di recente alla meritata considerazione.
Dove si aggiravano Don Procopio Ballacchieri, Cicca Stònchiti, Capitan Seniu, Fulli, Gena ‘a peritunni, Cocimu parralestu, Tidda ‘Ntrichiti ‘Ntrichiti, i civitoti e le civitote, non esiste più quel tipo di aggregazione che legava la gente alla propria realtà di zona, in cui nel bene e nel male si condividevano la stessa sorte e visione di una esistenza non facile. La vita di quartiere ormai è scomparsa in città e forse solo nei settori che formano gli anelli intermedi fra il centro e l’estrema periferia, persistono abitudini somiglianti a quelle di un tempo.
Cinzia Caminiti e Franco Colajemma per Fabbricateatro hanno messo in scena “Capitan Seniu”, scritta nel 1912, adattato da Daniele Scalia, per la regia di Elio Gimbo coadiuvato da Nicoletta Nicotra; con William Signorelli, Marilena Spartà (nel ruolo dei nipoti), Pietro Lo Certo, Gianni Nicotra e lo stesso Daniele Scalia. Scene di Bernardo Perrone, coreografie a cura di Sabrina Tellico, costumi di Mario Alfino, luci di Simone Raimondo. Uno dei lavori meno noti che reca la curiosa attenzione sulla evoluzione economica ed involuzione familiare di due fratelli (Caminiti e Colajemma) che da quando possono contare su una posizione patrimoniale stabile, non perdono occasione e circostanza per azzuffarsi come cane e gatto. La mancanza di armonia si rifletterà anche sui nipoti (Signorelli e Spartà) che progettano un piano per riportare al quiete in casa. Finale alla Dickens e giro di valzer per tutti.
Elio Gimbo, che dello scrittore è diventato quello che meritatamente si definisce “uno storico”, rivendica “un modo preciso di rifarsi alla tradizione martogliana, opposto al contesto ideologico dei suoi interpreti storici. Martoglio estrae il comico dalla stessa miniera da cui Verga estrae il tragico e la stessa scelta del registro dialettale fa del linguaggio un sismografo dei cambiamenti all’interno delle classi sociali. L’obiettivo del comico di Martoglio non è il disimpegno, ma il comico che eleva fattarelli all’interno di subculture cittadine a fenomeni storici. Martoglio trova, quindi, nel popolo benzina per il motore del rinnovamento”.
Brillanti e perfettamente complici Franco Colajemma e Cinzia Caminiti che dimostrano oltre ad un grande affiatamento, una gran voglia di divertirsi e di divertire; forse, appena sopra i toni il personaggio della nipote, troppo aggressivo e ad alto volume.
A causa del tutto esaurito, sono previste repliche per il prossimo mese di febbraio.
Salvo Saitta, Caterina ed Eduardo Saitta, al Teatro ABC, per al quarta ripresa dal 1972, hanno presentato “Lu Matrimoniu ‘nda la Civita” con i sopracitati attori oltre a Massimo Procopio, Aldo Mangiù, Eleonora Musumeci, Serena Rapicavoli, Lucia Debora Chiaia, Santo Scuderi, Annalise Fazzina, Federica Gambino, Orazio Torrisi, Roberta Nasello e Roberta Musumeci. Regia di Salvo Saitta, direttore di scena, Silvio Santoro, assistente alla regia, Emanuele Cammisi.
«Un testo adeguato alle esigenze di un pubblico diverso – spiega Eduardo Saitta – sicuramente più emancipato, preparato, che non priveremo di alcuni dei pezzi storici dello spettacolo, come la lettura della lettere “anomila” (anonima) di don Procopio; oppure della spiegazione di cos’è il microbo; oppure le teorie dei “baddisti” e dei “culunnisti” sull’argomento colera. Insomma un omaggio alla nostra città ed al nostro Martoglio, per non perdere quelle radici, quell’attaccamento alle “cose” di Catania, le vie, le frasi, i detti, i pecchi, per non perdere quel gusto, quella voglia di appartenere alla nostra Terra. Il Teatro, ancora una volta, rende tutto questo possibile».
Scenografia bellissima (sembra di essere veramente in un vecchio cuttigghiu), abiti e dettagli curati con pignoleria; un numerosissimo gruppo di attori che, sin dalla prima sera rende l’idea di quanto tempo sia stato dedicato alle prove. Non riesco a fare nomi e scrivere di uno più dell’altro: tutti brillanti e disinvolti. Caterina Saitta è divertentissima nel ruolo della madre decisionista ed artefice dei progetti di matrimonio per la figlia: il siparietto con il marito contadino che rientra dai campi, strappa le risate più sfrenate! Aldo Mangiù è calato con destrezza nel ruolo del giudice di origine torinese. Sapiente lavoro di “cucito” che Salvo Saitta (qui, Don Procopio) nei lontani anni ’70 fece unendo “U contra”, “Civitoti in pretura” e brani tratti dalla Centona.
L’accostamento trova la sua ragione nella riflessione che è sopraggiunta vedendo sul palcoscenico Cinzia Caminiti e Franco Caljemma (Sala Di Martino), Salvatore Saitta e Caterina Saitta (Teatro ABC): quattro fuori classe (circondati, in verità da attori preparatissimi), testimoni verosimili di un tempo che fu. Attori non soltanto bravi nell’arte della recitazione, ma preparati perché colti. Non è inusuale vedere fare teatro a chi non ha preparazione, ahimè; il frequentatore dei teatri non è spettatore passivo, privo di capacità di scegliere; egli è animato da una precisa passione, competente. Dunque, piacevolmente colpito quando un allestimento è curato in ogni particolare, il regista sa scegliere gli attori e valorizzarli, curare il testo ed i dialoghi rendendo omaggio piuttosto che lasciarsi trascinare dall’egoistico delirio di realizzare adattamenti troppo personalizzati. La commedia popolare non è per definizione di facile costruzione: i personaggi di Martoglio non sono caricature da replicare con gesti esagerati e linguaggio sboccato, bensì maschere complesse che recano la responsabilità di tutta la narrativa. Non trascurando la necessaria bravura che occorre nell’adoperare correttamente i lemmi del repertorio classico. Se posso azzardare di esprimere la mia opinione in ordine agli spettacoli citati, mi piacerebbe dare voce piuttosto all’ammirazione che ho provato verso attori e registi che hanno saputo lavorare con tanto rispetto.
Alla fine di entrambe le commedie, tutti colori degli abiti, la luce del sole, le temperature tiepide della nostra Sicilia. E la squinternata razionalità, la flemmatica ironia delle genti del sud che annaspano per restare a galla.
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