di Santi Maria Randazzo
Una memorabile pagina del cinema italiano, girata a Motta Santa Anastasia dal regista Nanni Loy nel 1965, nel segmento “Usi e Costumi” del film “Made in Italy”, per documentare il retaggio di una antichissima tradizione greco-romana, già propria della cultura indo-europea, costituita dalla funzione delle Prefiche Reputatricile quali, nei funerali, venivano appositamente reclutate per piangere e cantare le lodi del defunto.
Certamente costituisce un importante e gradito riconoscimento, oggi storico, la scelta di Nanni Loy di girare a Motta Santa Anastasia il segmento del film“ Made in Italy” che documentava la tradizione greco-romana dell’intervento delle Prefiche Reputatrici ai funerali di estranei, cui venivano invitate per “ piangere e lodare il morto”. La scena venne girata all’interno di una casetta ubicata in un vicolo di Motta Santa Anastasia.
“ Made in Italy” è un film ad episodi del 1965, diretto da Nanni Loy; composto da una trentina di sketch a loro volta raggruppati in cinque distinte sezioni,(Usi e costumi; Le donne; Il lavoro; Lo Stato, la Chiesa e il cittadino; La famiglia)attraverso le qualiil regista descrive acutamente gli usi e i costumi degli italiani dell’epoca. La scena delle Prefiche Reputatrici, come si vede nella foto sottostante, prevedeva, ovviamente, la presenza di un defunto: da bambino mi capitò di vedere l’intervento di Prefiche Reputatrici in qualche funerale celebrato a Motta Santa Anastasia; oggi tale pratica è scomparsa.
L’episodio viene introdotto da Nanni Loy attraverso una scena che ha come sfondo il suggestivo contesto ambientale della zona delle colline dei“Sieli”di Motta Santa Anastasia che si estende fin verso Misterbianco, dietro le quali oggi,purtroppo, insistono due megadiscariche fra le più grandi esistenti nel meridione d’Italia, di cui una ancora attiva.
La scena prosegue, ambientata tra le zone indicate a Motta S.A. come “U Minicuccu” e “A Urnazza” e lascia intravedere, sullo sfondo, parte nel Neck di Motta, della Chiesa Matrice e del castello Normanno-Aragonese,
Nel mentre si girava questa scena, la registrazione sonora fu contestuale alle riprese filmiche, incorporando, in tal modo i suoni e le voci che provenivano dall’ambiente in cui veniva girata la scena, in modalità cosidetta“ presa diretta”. Tra i tanti suoni e voci che si sentono, emerge chiara la voce del signor Vincenzo Sicali“ UzùVicenzu u’ pisciaru”, il pescivendolo ambulante che portando le ceste con il pesce sulle spalle, pubblicizzava e vendeva la sua mercanzia da venditore ambulante per le vie del paese.
Nel vicoletto, a ridosso della casetta dove si girava la scena, ci eravamo radunati una cinquantina di curiosi, che cercavamo, finché ci fu permesso, di sbirciare dall’uscio della casetta il morto e le prefiche.Poi Nanni Loy, preparandosi a girare la scena imboccò il megafono e con voce stentorea intimò: “ Fate tutti silenzio”, e poi continuò:“ Il Morto Stia fermo”, visto che l’attore che interpretava il defunto dava ancora segnali di inopportuna motilità: una rumorosa e spontanea risata serpeggiò fra gli astanti, mentre le Prefiche iniziavano ad intonare i consueti professionali lamenti.
Il rito delle lamentazioni e dell’esaltazione delle virtù del morto (a Catania esisteva il sagrato della chiesa vicino alla Porta Ferdinandea che veniva ironicamente chiamato “ U chianu re minzogni” perché dopo morta anche la persona più indegna veniva celebrata come raro esempio di virtù), era una prassi consueta in passato ed avveniva ancheattraverso l’intervento delle Prefiche o del prete celebrante. Tale consuetudine di accompagnare i riti funerari con le lamentazioni delle Prefiche sembrerebbe affondare le sue radici nella cultura europea del VI millennio a.C. . In particolare è il De Gubernatische parla di tale rito nella cultura indoeuropea: “ Maggior interesse sveglia in noi l’inno 18° del 10° libro delRigveda,alla morte, perocchè ivi appaiono il più antico esempio ch’io trovi delle Prefiche, delle Lamentatrici che occorrono in quasi tutte le cerimonie funebri indo-europee.”( 1 ) Ed ancora: “ Ma la parte più interessante del rito funebre indo-europeo, è il lamento delle donne, in ogni paese ariano, dall’età più remota fino ad ora, occupa la stanza ove il defunto viene esposto, e talora lo seguita fino alla sepoltura. Gli inni funebri dell’Atharvaveda ci mostrano già presente la Donna Lamentatrice nelle antiche cerimonie ario-indiane; nel Mahabharata, è famoso il lamento delle donne( Strivilapa) sui morti eroi, e l’uso si divulgò dall’Asia per tutto l’occidente europeo.” (2 )
Sempre il De Gubernatis, citando Padre Antonio Bresciani, ci illustra alcune specifiche ritualità della Sardegna: “ In sul primo entrare, al defunto, tengono il capo chino, le mani composte, il viso ristretto, gli occhi bassi e procedono in silenzio quasi di conserva, oltrepassando il letto funebre, come se per avventura non si fossero accorte che bara ne morte ivi fosse. Indi alzati come a caso gli occhi e visto il defunto giacere, danno repente in un acutissimo strido, battono a palma a palma e gittano i manti dietro le spalle, si danno in fronte ed escono in lai dolorosi e strani.”.
In Grecia, a Roma e successivamente in Italia si cercò di limitare alcune pratiche autolesionistiche che venivano adottate dalle Prefiche: “ LePreficheromane andavano ancora più in là, che contro lo stesso decreto delle Dodici Tavole( Mulieresgenas ne radunto) solevano martoriarsi tanto che ne usciva il sangue, ond’esse credevano, secondo scrive Varrone, placar gli dei infernali. Così la legge di Solone proibiva alle vecchie Prefiche ateniesi di lacerarsi le guance. A Milano vennero proibite le Prefiche da San Carlo Borromeo.”( 3 )
Sulle Prefiche Reputatrici calabresi ha scritto Raffaele Corso che così illustra l’uso: “ In uno zibaldone manoscritto in cui il benemerito cannico Vincendo Sorace (1769-1831) riassume le disposizioni sinodali di Nicotera, dove era Cancelliere della Curia vescovile, si legge che nel Sinodo celebrato il 24 luglio del 1588, il Vescovo della diocesi, confermando le norme precedentemente emesse nel 1583, proibiva il repete ossia «quella sorta di canto lugubre, che si faceva dalle reputatrici sul cadavere e lo scarmigliarsi o svellersi dei capelli». Dopo tanto tempo e tante proibizioni ecclesiastiche, l’uso è completamente scomparso in Nicotèra, sebbene rimanga, qua e là, soprattutto nei villaggi, lo svellersi, dei capelli da parte delle donne che, affacciandosi dalle finestre e dai balconi, mostrano al pubblico l’interno strazio, scarmigliandosi e facendo cadere qualche ciocca sul feretro. Per poter avere notizie dell’uso dobbiamo attendere, la pubblicazione del Regno delle Due Sicilie descritto e illustrato, in cui il Canonico Vincenzo Brancia di Nicotera prende la penna per informarci che «sulla morte della persone del popolo, le donne si scapigliano e intorno alla bara mandano urli da disperate, si strappano i capelli a |ciocche, e li depositano sul cadavere dell’estinto. Dalla parte del capo deve sistemarsi la donna più prossima in parentela al defunto. Tra le donne circostanti, a quando a quando, una di esse prende a dire le lodi del defunto con una specie di nenia che nomano ripetiamento ed allora cessano le altre di urlare e piangere. Vi sono talune nel volgo reputatissime per tale mestiere, le quali non lo esercitano a pagamento, come in alcuni luoghi fanno le moderne prèfiche, ma per amicizia e per riguardo a coloro verso i quali si sentono obbligati.”. Naturalmente i sintetici accenni storici che abbiamo inserito nell’articolo non possono essere completi, non essendo questa la sede per sviluppare una completa disamina storica di quest’uso funerario. Nel contesto dell’articolo, però, ci è sembrato opportuno inserire alcune note significative che permettessero al lettore di datare storicamente e geograficamente quest’uso. Nel concludere l’articolo vogliamo sottolineare come, nella logica di questo mercato globale spietato e senza barriere, anche una tradizione che ormai è solo storica può divenire strumento sofisticato adoperato da manipolatori professionisti per introdurre messaggi negativi nell’immaginario collettivo, a scapito della Sicilia. Ci sembra utile richiamare quanto scritto da Francesco Gambaro il 17 marzo 2012: “ Lasicilia, se vuole cambiarsi pelle, dovrebbe primaditutto liberarsi dalle prefiche, dalle lamentatrici di professione. Elle non perdono occasione – soprattutto se intervistate da le monde di parlare male della sicilia esattamente con la allucinata perdizione di Linda Blair che sputa crema di pistacchio sulla faccia del prete nel primo esorcista. Liberarsi dalle prefiche significa accettare un paese diverso. Sulle vie di damasco ci siamo perduti in tanti, anche un amabile Ricky Tognazzi che da quelle parti e in quelle parti nel film il padre e lo straniero è riuscito a raccontare la costruzione di unamicizia. Se questa premessa è lunga e contorta passo al dunque di un incantesimo che io vivo da siciliano, non preoccupato più di tanto di non riuscire a piazzare i miei possibili cancri. La sicilia è un suk dove se sai cercare trovi di tutto, se chiedi trovi Sicilia, Nebrodi, Madonie, deserti. Le prefiche chiedono spazi, soldi, tessere di riconoscimento. Invece la Sicilia è stupore, lo dice Antonio Presti che tra Nebrodi, Madonie, Librino e deserti ha seminato di artifici briluccicanti il territorio, lo pensava ludovicocorrao che era riuscito a fare atterrare le astronavi a Gibellina. La sicilia si ascolta nellaimprovvisazione dei suoi poeti, anche quelli bambini ben ammaestrati e poco improvvisatori della chiesa madre di Tusa dove ieri Antonio Presti ha organizzato le sue giornate siciliane della poesia, coinvolgendoli insieme a poeti pochino più grandi come Sebastiano Adernò, Maria Attanasio, Milo De Angelis.”.